In gommone o nei camion Nuovi muri e divisioni politiche
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L’infernale 2015 fu l’anno in cui capimmo che respingere o accogliere, fare hotspot o barriere, prendere impronte o ricollocare è tutto sommato ininfluente. Mentre noi pattugliavamo la Libia e il Mediterraneo meridionale baloccandoci con le sigle Frontex ed Eunavfor, loro cominciavano a partire coi gommoni dal Mare Nostrum orientale e ad arrivare sigillati nei camion del pollame, a volte morti, lungo il nuovo Occidente Express che dalla Turchia raggiunge l’Austria.
C’è stato qualche sbarco in meno d’eritrei e nigeriani a Lampedusa — anche se si muore quanto prima e in aprile s’è consumata la strage degli ottocento — ma le mafie dall’Est hanno compensato col record di siriani, iracheni, afgani imbarcati a Bodrum: un’onda migratoria quattro volte quella del 2014. Questi esodi dureranno fino al 2050, calcolano i demografi: i clandestini entrano anche in bici, dalle steppe russe, che lo vogliano o no le signore Le Pen, i Farage, i Wilders, i Bartos e tutti i Salvini d’Europa.
Il Migrantiland, 72 milioni, è diventato il 24° Paese più popoloso del mondo: più grande dell’Italia, il terzo Stato europeo dopo Russia e Germania. In quest’inizio di millennio, sono raddoppiate le persone che vivono in un Paese diverso da quello in cui sono nate. L’Ue, non sapendo bene che scafi pigliare, fiutando assai meglio gli umori elettorali, in pochi mesi ha tenuto ben dodici vertici e altrettante linee sul tema: prima (in aprile) ha lasciato da sole l’Italia e la Grecia che chiedevano di rivedere Dublino 3, il regolamento che scarica l’onere dell’asilo sul primo Paese toccato dal profugo; poi s’è trovata nella stessa situazione di italiani e greci, assediata, e ha lasciato che le polizie balcaniche sparassero i gas o che il magiaro Orban votasse una legge per la galera ai migranti; quindi ci ha ripensato accettando (a parole) di ripartire le quote, 160mila accolti e spalmati in 23 Paesi, schiantandosi però sui muri politici (Gran Bretagna, Francia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Paesi baltici) e sui muri veri (ungheresi, croati, sloveni, bulgari, rumeni) innalzati da chi vuole evitare a qualsiasi costo l’ingorgo migratorio; di nuovo, s’è spaccata sul sorprendente dietrofront umanitario di Mutti Merkel che ha accolto i siriani (e a sua volta si trova contestata in patria: «Uno sciatore disattento che va nella neve fresca può provocare una valanga», è stato il dissenso del suo ministro Schaeuble); infine è andata a mercanteggiare con Erdogan, tre miliardi di euro e vaghe promesse sul suo futuro comunitario, purché Ankara introduca qualche visto d’ingresso e la smetta di scaricarci folle sulle isole greche…
L’Europa si costruisce con le crisi, diceva Jean Monnet, ma forse non pensava al cemento per fare muri. La questione s’è fatta solo d’ordine pubblico. La schedatura dei viaggiatori è un fatto, la revisione di Schengen è in agenda e la sospensione degli accordi, un tempo riservata solo all’eccezionalità dei G8 o degli Europei di calcio, è la regola: l’Austria e perfino la Svezia e la Provincia di Bolzano hanno stoppato la libera circolazione. Come avrebbe fatto poi la Francia causa Bataclan, come aveva già fatto l’Italia per la Libia, come farà Londra se passerà il referendum sulla Brexit.
È di moda il distinguo: migrante politico o economico? Emigrare per fame, chissà perché, vale meno che emigrare per paura. E lo straniero rovesciato nel cortile del vicino, altra riscoperta del 2015, è tornato a essere come all’epoca di Gheddafi un’arma non convenzionale tra governi che non possono spararsi addosso: i turchi sui greci, i greci sui macedoni, i serbi sui croati… Nel 1964, quando in Germania si presentò il milionesimo Gastarbeiter, i tedeschi gli regalarono una moto e i settimanali gli diedero la copertina. Due giorni prima di Natale, è entrato nell’Ue il milionesimo profugo dell’anno: è già tanto se gli abbiamo dato una coperta.
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