Il saluto di Francesco ai clandestini dalla rete al confine di Ciudad Juárez

Il saluto di Francesco ai clandestini dalla rete al confine di Ciudad Juárez

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CIUDAD JUÁREZ (Messico) Un vasto mondo di sabbia e arbusti, rilievi di roccia, polvere e fango. Il paesaggio scabro e assolato oltre la città sembra uscito da una pagina di Cormac McCarthy, il grande scrittore americano che ha vissuto a lungo oltre la rete metallica, a El Paso.
Il Rio Grande, ridotto a un canale tra due argini di cemento, traccia la linea di confine tra Messico e Usa, al di là il Texas e al di qua il Papa che si avvicina per quanto possibile e da un palco sulla riva messicana, ai piedi di una grande Croce, saluta e benedice migliaia di fedeli arrivati dalla parte statunitense, quelli che hanno passato la frontiera.
Prima di arrivare aveva scandito: «Nessuna frontiera potrà impedirci di condividere l’amore misericordioso del Signore». La messa tra due Stati si celebra a un’ottantina di metri dalla rete, nella notte italiana, ed è il momento più atteso del viaggio: «Mai più morte e sfruttamento! C’è sempre tempo per cambiare!».
Novecentocinquanta «pandillas», le bande armate legate al narcotraffico, con decine di migliaia di affiliati; un numero di omicidi (fino a 2.500 l’anno) che ne ha fatto una delle città più violente del pianeta, il traffico di esseri umani che si aggiunge a quello della droga, la sequenza infinita di femminicidi che Roberto Bolaño raccontò nel romanzo «2666». Francesco desiderava venire a Ciudad Juárez dal viaggio in Usa, a settembre, e passare la frontiera a piedi, poi la tappa cubana cambiò i programmi.
Al mattino visita il carcere e invita i detenuti ad essere «profeti» e «rompere i circoli viziosi della violenza e della delinquenza». Quando incontra il mondo del lavoro, denuncia la povertà e la mancanza di lavoro e istruzione come «terreno favorevole per cadere nella spirale del narcotraffico e della violenza», fino a sillabare: «Dio chiederà conto agli schiavisti dei nostri giorni! Il flusso di capitale non può determinare il flusso e la vita delle persone».
Ma è durante la messa che gli accenti si fanno più solenni. Francesco ricorda che «qui a Ciudad Juárez, come in altre zone di frontiera, si concentrano migliaia di migranti dell’America Centrale e di altri Paesi, senza dimenticare tanti messicani che pure cercano di passare “dall’altra parte”. Un cammino carico di terribili ingiustizie: schiavizzati, sequestrati, soggetti a estorsione, molti nostri fratelli sono oggetto di commercio del transito umano».
È una «crisi umanitaria» che «non possiamo negare» e va oltre il Messico, «la tragedia umana rappresentata dalla migrazione forzata è oggi un fenomeno globale». Si può misurare in cifre «ma noi vogliamo misurare in nomi, storie, famiglie: fratelli e sorelle che partono spinti da povertà e violenza, narcotraffico e crimine organizzato». Davanti a «tanti vuoti legali, si tende una rete che cattura e distrugge sempre i più poveri», sillaba Francesco.
I giovani «come carne da macello» sono «perseguitati e minacciati quando tentano di uscire dalla spirale della violenza e dall’inferno delle droghe. E che dire delle tante donne alle quali con la violenza è stata ingiustamente tolta la vita!». I fedeli piangono. Croci nere in campo rosa ricordano i femminicidi, poi rimosse prima dell’arrivo del Papa. Alla messa ci sono i familiari dei 43 studenti messicani scomparsi il 27 settembre 2014, una delle più spaventose stragi dei narcos.
Francesco richiama il racconto biblico di Ninive, «la grande città che si stava autodistruggendo» perché «non era sostenibile la violenza generata in se stessa». Dio manda Giona che convince gli abitanti , «la misericordia scaccia sempre la malvagità». C’è sempre la possibilità di cambiare, Francesco «implora la misericordia divina» ed esclama: «Questa parola è la voce che grida nel deserto e ci invita alla conversione. È tempo di conversione, è tempo di salvezza, è tempo di misericordia».
Gian Guido Vecchi


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