La Marina militare voleva «inglobare» i controlli di porti e piattaforme offshore

La Marina militare voleva «inglobare» i controlli di porti e piattaforme offshore

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«Solo fango su di me», ha detto ieri Alberto Cozzo, il manager quarantenne catanese il cui nome è finito nel filone dell’inchiesta della procura di Potenza sul porto di Augusta.

Nelle intercettazioni il suo nome risulta molto sponsorizzato da Gianluca Gemelli – ora ex compagno dell’ex ministra Federica Guidi, al centro dell’inchiesta potentina – perché fosse riconfermato commissario straordinario dell’Autorità portuale del porto di Augusta, città natale dello stesso Gemelli dove l’imprenditore premeva per realizzare un mega impianto di stoccaggio di prodotti petroliferi e polveri dell’altoforno Ilva di Taranto.

Intervistato dal quotidiano La Sicilia, Cozzo precisa di non essere neanche indagato e di essere stato scelto per le sue competenze. Mentre la Guidi si è dimessa, lui non è stato riconfermato a dicembre al vertice dell’Authority portuale dove era stato assegnato dall’ex ministro Lupi. Nessun appalto fino a quel momento era stato da lui assegnato, o autorizzazione o concessione, a società riconducibili a Gemelli o a persone a lui vicine.

Che gli eventi fossero prematuri o meno, nelle telefonate registrate per disposizione dei pm, Cozzo appare come parte della «combriccola», la stessa di Gemelli e del capo di Stato maggiore della Marina militare, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi, e del potente consulente del Mise Valter Pastena.

De Giorgi – che pure continua a dirsi estraneo a tutto e chiede di essere ascoltato quanto prima dai giudici del riesame – pare fosse pronto, per garantire a Cozzo una riconferma, a bladire, a cena, il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, un osso duro contro la cui intransigenza Gemelli e Pastena avrebbero pensato anche a una attività di dossieraggio, su cui Delrio ora vuol veder chiaro con un esposto ad hoc alla procura di Roma.

È tutto molto complesso, tutto da accertare, naturalmente. Ma una cosa è certa il controllo dei porti era l’assillo di De Giorgi: un tassello fondamentale da acquisire nelle rete di potere. In particolare oltre alla legge navale, l’ammiraglio aveva un altro piano in testa che poi è stato ostacolato da Delrio: centralizzare e portare sotto la Marina militare le capitanerie di porto. Perché?

Le capitanerie di porto sono l’organo di controllo fondamentale su tutte le attività lungo costa, armatoriali, portuali e petrolifere.

Spiega l’ammiraglio in pensione Vittorio Alessandro, ex capo del Reparto ambiente marino (Ram) e ora direttore del Parco delle Cinque Terre: «Fino all’84 non esistevano le autorità portuali e tutte le competenze erano delle capitanerie, che restano comunque un salvadanaio di esperienza per il controllo degli usi civici del mare, sulla gestione amministrativa, non militare, dei porti e delle spiagge, per la sicurezza e per interventi d’emergenza, per il primo soccorso, il controllo dell’operatività delle navi e dei movimenti sulle banchine a terra, così come per l’inquinamento». Per Alessandro «se le capitanerie – in forza dei loro 11 uomini – fossero inglobate dalla Marina militare, tutto questo patrimonio di competenze specifiche risulterebbe inglobato e si disperderebbe».

Il progetto di centralizzare e quindi inglobare le capitanerie da parte della Marina militare è stato covato a lungo. Prima di provare l’affondo finale con Delrio, il capo di Stato maggiore De Giorgi persegue i suoi fini riuscendo ad ottenere che con la spending review di un anno e mezzo fa i vertici delle capitanerie siano sotto ordinati gerarchicamente ai gradi più alti della Marina militare: gli ammiragli delle capitanerie potranno ambire solo a due stelle («due botte», in gergo militare) nei gradi militari.

E infine spunta la Marina militare – che al contrario di quanto vorrebbe De Giorgi non ha assorbito le capitanerie e quindi non ha compiti civili – nella Commissione sicurezza sulle piattaforme offshore nella la legge di recepimento della direttiva europea 30 sulla sicurezza delle attività estrattive in mare nel settore degli idrocarburi (dl 145/2015). Inserita nonostante un parere contrario al vetriolo della commissione del Senato.

Legambiente ha appena redatto un rapporto («Sporco petrolio») che cerca di mettere in luce i meccanismi di un settore, quello petrolifero, storicamente legato anche in Italia a una lunga scia di corruzione, inquinamento e malaffare. Il dossier parte dalle risultanze di due ong internazionali – Trasparency e Global witness – per le quali il settore gas e petrolio è tuttora in cima agli indici di rischio corruzione nel mondo: 427 casi registrati tra il ’99 e il 2014, il 19% del totale.

«È proprio la proprio la sproporzione fra la forza contrattuale ed economica messa in campo dai singoli operatori titolari o gestori degli impianti – scrive l’associazione ambientalista tra i capofila del Comitato per il Sì al referendum sulle trivelle del prossimo 17 aprile – e la debolezza politica ed economica dei territori dove insistono le piattaforme estrattive, la ragione di questa impressionante propensione alla corruzione».

Perché la bilancia si riequilibri e il sistema dei controlli anche ambientali funzioni, l’unico segnale possibile è che vinca il Sì al referendum.



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