Le ragioni sociali degli scandali

Le ragioni sociali degli scandali

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Non passa ormai giorno senza che l’intreccio perverso tra affarismo e partiti (a prescindere dai suoi connotati delittuosi o meno) invada le cronache politiche, facendo riemergere in continuazione i termini della questione morale. E gettando una maschera sinistra sul preteso “rinnovamento” con il quale il nuovo corso renziano avrebbe travolto un sistema palustre e anchilosato. Se attraverso gli scandali è possibile leggere in filigrana la “ragione sociale” delle nostre classi dirigenti, bisognerà spiegare cosa ci sia di veramente nuovo in questa selva di corruttela popolata da porporati, alti burocrati e capitalisti di periferia sempre liberisti a parole, ma all’atto pratico dediti a prosperare spolpando lo Stato delle sue risorse e ricambiando i favori con il ricorso massiccio e sistematico all’evasione fiscale.

La novità sta semmai nell’assoluta assenza, nel corpo politico, degli anticorpi atti a frenare l’invadenza delle pretese dei gruppi affaristici. In questo panorama, al di là delle contrapposte retoriche (auto-assolutorie) delle “poche mele marce” e dei “politici tutti ladri”, c’è di strutturale l’assoluta mancanza di rispondenza tra il corso degli eventi politici ed il conflitto sociale ed ideale. Nel Paese reale operano dinamiche profonde, che si svolgono però in parallelo, e non di concerto, con il sistema dei partiti. A tirare le fila è ormai un’oligarchia finanziaria del tutto disinteressata alle sorti della comunità – una classe cosmopolita che riempie da noi come altrove le pagine dei panama papers -, e che pure possiede un potere di ricatto smisurato nei confronti dei governi, sotto la minaccia continua delle delocalizzazioni e del disinvestimento. Sul versante opposto dello spettro sociale, una maggioranza di lavoratori e subalterni anch’essa lontana da una politica disinteressata a dare risposta ai suoi bisogni ed aspirazioni. A metà del guado, se si esclude una minoranza nobilmente ma sterilmente iper-politicizzata, si assiste ad un affastellarsi attorno al Partito-della-nazione di un ceto medio ipertrofico che vede nella politica una via di sbocco diretta o indiretta alla propria insicurezza non solo materiale, ed un capitalismo nano, insofferente delle regole ma bisognoso delle regalie della comunità per rimanere a galla tramite il sistema degli appalti, in un mercato globale spietato e troppo competitivo. Di qui la necessità, affinché il sistema politico non venga travolto, di un Partito unico di governo che si occupi di strutturare una rete clientelare di consenso, con il sostegno plaudente dell’intero sistema mass-mediatico, e che realizzi per quanto può una cassa di compensazione tra miriadi di interessi particolari impegnati in una guerra di corsa.

Se a questo sistema politico non si scorgono alternative di carattere globale, va da sé che solo due tipi di opposizione possano emergere: o il rifiuto della politica in quanto tale, o il cacicchismo locale che lotta furiosamente per strappare allo Stato quote di risorse, da gestire però ripetendo, del potere centrali, le modalità di operare e gli stilemi propagandistici. Una situazione che ha, nella storia patria, un poco entusiasmante precedente nell’epoca post-risorgimentale, quando, esaurita la “destra storica” la propria missione ed il proprio afflato ideale (a prescindere dai suoi sbocchi apertamente conservatori), l’Italia si trovò preda, secondo Lelio Basso «di uno scetticismo fondamentale verso la politica, i partiti e i governi, un’assenza di idealità e una tendenza a ricercare ciascuno per proprio conto il modo di “arrangiarsi”, stato, d’animo che oggi si chiamerebbe qualunquista; in senso opposto un moralismo velleitario, non legato alla vita reale del paese e all’azione delle masse, ricusante come riprovevole compromesso ogni concreta possibilità politica; infine una retorica di grandezza che si esprimeva talora in un rivoluzionarismo massimalistico astratto e verboso, più spesso invece in sogni di romanità o in ambizioni imperiali assolutamente sproporzionate alle reali possibilità del paese». Tutto ciò mentre tra le classi subalterne e lo Stato si apriva una frattura incolmabile, e «lo Stato italiano in tal guisa veniva assumendo a poco a poco la figura di un sindacato di privilegiati, ciascuno preoccupato di tagliarsi la propria fetta di favori, di concessioni e di privilegi: precisamente l’opposto di quello che dev’essere uno Stato democratico».

Nel primo dopoguerra intervenne il fascismo a tagliare in modo drastico il nodo di queste contraddizioni, ammantandole sotto una coltre di retorica, repressione e guerra. Furono la Resistenza e poi il lungo “spirito del ‘45” a introdurre seri elementi di rottura in questa storia pluridecennale. Una rottura certo figlia della tempra morale delle élites che la promossero, ma anche, e soprattutto, dell’irruzione per la prima volta nella storia del Paese delle masse popolari, con il loro carico di ideali e di interessi materiali che esigevano soddisfazione.

Oggi quella parentesi pare chiusa, né pare possibile riaprirla riprendendo con gli stessi canoni un discorso interrotto. Ma oggi come allora non vi è ristrutturazione possibile in senso democratico per il sistema politico senza un nuovo protagonismo nella lotta politica dei ceti spossessati dalla crisi. Nel protagonismo popolare sta il più prezioso antidoto alla definitiva deriva del sistema democratico; e da qui passa il vero rinnovamento.



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