Referendum. I kurdi sfidano la Storia

Referendum. I kurdi sfidano la Storia

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ERBIL. «Ho 62 anni, aspetto questo giorno da quando ne avevo 7. Ho sopportato di tutto, l’indipendenza è l’unica cosa che stavo aspettando».

Casacca color cachi, kefiah arrotolata sul capo, esce dal seggio con l’indice destro sollevato. Quel dito, macchiato d’inchiostro, è il tratto distintivo di chi è andato a votare e l’icona di una giornata che in tanti, da queste parti, aspettavano «come una rinascita».

PER MOLTI CI SONO VOLUTI anni, per alcuni quasi un secolo: 96 nel caso di una signora arrivata ad Erbil dalle montagne per partecipare al referendum in cui si chiedeva al popolo curdo in che modo volesse vivere. Le mani nodose aggrappate ad un bastone, sottobraccio alla figlia che l’ha accompagnata a dire la sua.

È nata un anno dopo la firma del trattato di Sèvres che conteneva la promessa – solo sulla carta – di creare uno Stato curdo indipendente. Ed è proprio nel tradimento di quella promessa che affondano le radici le rivendicazioni kurde che lo scorso 25 settembre hanno spinto alle urne circa 3 milioni e mezzo di persone. «Bale, Bale!», sì, sì.

Il 92,7% degli aventi diritto ha risposto «sì» al quesito che interrogava circa la volontà di rendere la regione del Kurdistan e le aree curde fuori dell’amministrazione uno Stato indipendente. Martedì sera, il presidente Mas’ud Barzani in un discorso televisivo alla nazione ha anticipato i risultati confermati ieri pomeriggio dalla commissione elettorale.

UNA VITTORIA, seppur scontata, schiacciante. A Erbil il successo era nell’aria già nei giorni precedenti, complici il clima elettrizzato, l’eccitazione degli abitanti e una propaganda elettorale martellante. Le bandiere e i manifesti tappezzano le vetrate dell’aeroporto, i finestrini delle macchine, le vetrine dei negozi e le mura della Cittadella. La narrazione è chiara e va in un’unica direzione. In città non si parla d’altro.

Domenica pomeriggio, nella sala da tè che si affaccia sulla piazza principale sotto il Castello, c’è ancora incertezza sull’apertura dei seggi, nel timore della reale efficacia dei tentativi internazionali di posticipare il voto. Era stato lo stesso Barzani che, lo scorso venerdì, accolto da un bagno di folla nello stadio cittadino, aveva tirato dritto mettendo di fatto la parola fine all’epoca dei temporeggiamenti.

NELLA SALA GLI UOMINI giocano a tawla e bevono caffè. Halan ha 25 anni e la sua identità tatuata sul braccio destro: «Kurdistan» scritto in caratteri gotici. Non ha dubbi su come andrà a finire: «Questo risultato non segnerà il destino solo del Kurdistan meridionale ma di tutte le altre parti».

I kurdi, tra i 35 e i 40 milioni, sono infatti sparpagliati tra Turchia, Iran, Siria e Iraq (oltre a una consistente diaspora europea) e più che su base confessionale, sono tenuti insieme da legami culturali.

Le divisioni in seno all’etnia sembrano però al momento allontanare lo scenario di uno Stato unitario a cavallo dei quattro Paesi, nonostante l’esito del voto sia stato accolto con particolare entusiasmo dai kurdi iraniani che lunedì notte, in migliaia, hanno ballato lo shaiy, la danza tradizionale, per le strade di Sina, Mahabad, Saqiz e Marivan.

A fianco ad Halan, il suo amico Daraa, stessa età e stessa motivazione, radicata fino alla disponibilità di prendere le armi, se necessario: «Non cerchiamo la violenza ma, se qualcuno dovesse minacciare di fermarci, siamo pronti a combattere per difenderci». Non sembra essere quest’eventualità a spaventare un popolo animato dal riscatto dell’autodeterminazione. Banchetti di ambulanti circondano la piazza.

TRA LE SPEZIE E I TAPPETI vendono bandiere e sciarpe del Pdk, il Partito Democratico del Kurdistan del presidente Barzani. Le sue fotografie sono dappertutto. È lui l’uomo del momento, quello che non ha ceduto alle pressioni internazionali e non si è piegato alle minacce di Baghdad, quello che potrebbe finalmente garantire l’indipendenza e un’identità istituzionale alla Nazione più numerosa del mondo senza uno Stato.

«Quando vado all’estero, voglio poter dire di essere curda, non irachena. Abbiamo pagato un prezzo altissimo per poterlo fare e adesso sta avvenendo». Una ragazza ha appena votato in uno dei seggi allestiti in una scuola nel quartiere cristiano di Ainkawa. Mostra le dita a V, in segno di vittoria. È vestita a festa e, come lei, sono in tanti ad aver indossato l’abito buono, quello delle grandi occasioni.

La percezione, tra le lavagne e i banchi accatastati nei cortili è che qui si stia facendo la Storia. E non sembra importante, al momento, che forse a cambiare sarà ben poco. Le urne sono rimaste aperte un’ora in più del previsto ma già nel pomeriggio le persone hanno cominciato a scendere in piazza, nelle strade le macchine e i bambini avvolti dalle bandiere.

STROMBAZZARE di clacson, balli e fuochi d’artificio sono andati avanti fino a tarda notte, in una celebrazione che sembrava più un rito liberatorio più che una festa. «Io oggi ho votato sì ed è stato come rinascere», dice un padre che prende parte ai festeggiamenti. I figli, 4 e 6 anni indossano gli abiti tradizionali. Anche loro, forse, vorranno poter dire un giorno di aver fatto la loro parte.

Le operazioni di voto si sono svolte in maniera ordinata, ben organizzata e pacifica secondo quanto testimoniato da Vesna Pusic, membro del Parlamento croato, in Kurdistan in qualità di osservatrice internazionale.

«Non capisco la posizione di alcuni Paesi occidentali, come Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna», ha incalzato Bernard Kouchner, ex ministro degli esteri francese, anche lui tra gli osservatori.

Uno dei fondatori di Medici senza Frontiere inchioda i governi occidentali alle loro responsabilità: «Avevamo promesso la creazione di uno Stato kurdo e non abbiamo mantenuto quest’impegno», dice dopo aver espresso gratitudine per il ruolo centrale giocato dai peshmerga nella guerra contro Daesh.

«L’hanno fatto nel nostro nome ma quelli che sono morti sono stati loro». E la vittoria sul Califfato è tra le carte che i kurdi stanno giocando per accreditarsi a livello internazionale.

Nonostante le truppe schierate nei territori contesi con Baghdad, l’interdizione dello spazio aereo e le ritorsioni di Turchia e Iran, quella che si è inaugurata è una «nuova fase» nelle relazioni con Baghdad. Barzani, che si sta facendo carico della riparazione dei torti subiti, l’ha definito «un voto per il sì all’indipendenza e per il no ad operazioni come Al Anfal, agli attacchi chimici come ad Halabja e al genocidio», ricordando il prezzo salato pagato dal suo popolo nella battaglia per il riconoscimento della propria sovranità.

«L’INDIPENDENZA – ha concluso – è l’unica strada per evitare che crimini del genere si ripetano». Restano domande aperte e punti sospesi: la reale portata di un referendum consultivo, quale indipendenza aspettarsi e come cucire insieme la costruzione di un’identità statale con un processo di progressiva e necessaria democratizzazione.

«Bye Bye Iraq» era la scritta su un’auto che, il giorno del referendum, si aggirava per le strade di Ainkawa. Solo i prossimi passi ci diranno quanto questo augurio non resti solo un adesivo appiccicato sulla portiera di un auto.

FONTE: Marta Cosentino, IL MANIFESTO



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