Per il ministro Tria Flat Tax solo con tagli alla spesa e recupero dell’evasione

Per il ministro Tria Flat Tax solo con tagli alla spesa e recupero dell’evasione

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Fisco rovente. Il ministro dell’economia vincola il finanziamento della bandiera leghista alla riduzione della spesa e alla lotta contro l’evasione fiscale

Una giornata iniziata smentendo le stime del ministero dell’economia sul costo della «Flat Tax» da 60 miliardi di euro è proseguita mettendo un paletto nella corsa elettorale della Lega che è tornata in pressing sulla misura contenuta nel «contratto» firmato con i Cinque Stelle. È andato così il lunedì burrascoso del ministro dell’Economia Giovanni Tria che non ha escluso la possibilità di realizzare il totem leghista a misura dei ricchi – il paradosso della «tassa piatta» costituita da due aliquote al 15% fino a 50 mila euro di reddito e al 20% oltre – ma l’ha vincolata alla riduzione dell’evasione fiscale e alla revisione della spesa pubblica. Obiettivi remoti sia l’uno che l’altro. Nel caso dell’evasione, ieri l’agenzia delle entrate nel 2018 sono stati incassati 19,2 miliardi, l’11% in più sul 2017. Sempre che sia possibile, dalle parole di Tria risulta difficile immaginare che il governo stia pensando di usare interamente questo gettito per finanziare i 12-15 miliardi di euro preventivati per la «Flat Tax» da Salvini e truppe leghiste di complemento. «L’evasione fiscale sarà ridotta – ha precisato ieri Tria nella conferenza stampa di presentazione dei risultati dell’Agenzia delle entrate e riscossioni – Perché eliminarla del tutto è difficile». La stima supera i 100 miliardi di euro all’anno.

SULLA «RIDUZIONE delle spese dello Stato» le stime sono fantasiose, o minacciose, a seconda del punto di vista. Politicamente il ragionamento è: finanziare una misura iniqua con i proventi di privatizzazioni e dismissioni. Si parla di privatizzazioni da 18 miliardi (l’1% del Pil) nel triennio, circa 600 all’anno per i prossimi tre dovrebbero arrivare dalle dismissioni immobiliari. È la solita ricetta dell’austerità che il governo «sovranista» ha dovuto concedere ai custodi dei conti di Bruxelles. Se realizzate alla lettera, rischiano di produrre conseguenze disastrose. Sempre che siano possibili, e per il momento non lo sono state, le congetture si scontreranno con una previsione di crescita nel 2019 tendente allo zero del Pil, mentre lo stesso governo ha previsto una base dello 0,6% con l’obiettivo di raggiungere l’1% del Pil. Con 23 miliardi di euro da trovare per sterilizzare l’aumento dell’Iva previsto nel 2020, il vero tema è dove il governo troverà le risorse per finanziare la rendita nell’illusione che «sgoccioli» qualcosa verso il basso. È il nuovo balletto delle cifre che ci aspetta, in attesa del Def di aprile e della manovra d’autunno. Sempre che questo governo ci sia ancora.

NELLA LEGGE DI BILANCIO approvata lo scorso dicembre con la sciagurata scelta di finanziare il sussidio detto «reddito di cittadinanza» in deficit, è stata introdotta una mini-flat tax con un’aliquota unica del 15% per i redditi da impresa o lavoro autonomo inferiori ai 65 mila euro. Previste minori entrate per il 2019 pari a 300 milioni e meno 1,8 miliardi per il 2020. A partire dal 2020 è prevista un’aliquota fissa al 20% per i redditi tra 65 mila e 100 mila euro, con minori entrare per il 2020 di 100 milioni e meno 1,1 miliardi nel 2021. È l’assaggio del classismo della misura fiscale leghista che non è a favore delle partita Iva proletarizzate, ma un beneficio alle partite Iva «affluenti» delle libere professioni. Un aumento netto delle diseguaglianze economiche e sociali.

LO SCONTRO tra Lega e Cinque Stelle si sta ora svolgendo sui lavoratori dipendenti e sulle famiglie. I leghisti immaginano un’imposta concepita sulla famiglia: l’aliquota del 15% va applicata ai redditi fino a 50 mila euro da finanziare attraverso la cancellazione delle detrazioni e dei bonus con deduzioni che crescono in proporzione al reddito e al numero dei figli. Per i redditi superiori ai 50 mila euro scatterebbe l’aliquota al 20%. I Cinque Stelle pensano invece di introdotte tre scaglioni e si prevede l’allargamento della «no tax area» da 8.174 ai 9.360 euro. Il primo scaglione contiene i redditi fino ai 25 mila euro (aliquota tra il 24 e il 25%); il secondo dai 25 mila fino a 100 mila (aliquota del 38%); il terzo oltre 100 mila (aliquota del 43%).

«È POSITIVO che si parli di famiglia», sostiene Roberto Rossini, presidente delle Acli, anche se per ora non si conoscono i dettagli della proposta leghista. Tuttavia gli strumenti esistono già e non c’è bisogno di inventarne altri «più parziali». Basterebbe fissare una «no tax area», moltiplicarla per il numero della tabella di equivalenza dei carichi familiari, senza toccare le aliquote del sistema progressivo fiscale che «non sono troppe ma, semmai, sono troppo poche». «Bisogna capire – ha aggiunto Rossini – dove si reperiscono le risorse: se si pensa di prenderle dai possessori di partita Iva o dalla tassazione sul lavoro ci troveremmo di fronte ad un’altra norma che colpisce la fascia più debole della popolazione».

IL PROBLEMA della progressività fiscale è aggirato nello scontro tra Lega e Cinque Stelle sostiene la vice-segretaria generale della Cgil Gianna Fracassi. «Il principio è semplice – sostiene – chi ha di più paghi di più, e chi non ha mai pagato inizi a farlo. Si parta dal lavoro dipendente e dai pensionati aumentando le detrazioni fiscali».

* Fonte: Roberto Ciccarelli, IL MANIFESTO



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