Torino. Denuncia delle donne in carcere: «Siamo isolate e ammassate in carcere»

Torino. Denuncia delle donne in carcere: «Siamo isolate e ammassate in carcere»

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Isolate nel sovraffollamento, distanziate dagli affetti e strette tra gli estranei. Il paradosso della pandemia vissuta in carcere è intriso di sofferenza. E viene raccontato in prima persona nella lettera aperta ad Amnesty International scritta da alcune detenute della Terza sezione femminile della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, che chiedono al governo di prendere in esame misure meno afflittive (indulto, libertà anticipata di 75 giorni, misure alternative), «non come un regalo di clemenza, ma come un diritto acquisito». Perché, anche nei casi in cui per le misure alternative ci sarebbero le «carte in regola», si contano – sostengono le firmatarie – «più rigetti che accoglimenti delle nostre istanze».

È il caso di Dana Lauriola, No Tav, in carcere dal 17 settembre alle Vallette, dove deve scontare una pena di due anni di detenzione per un episodio avvenuto nel 2012 durante un’azione dimostrativa pacifica sull’autostrada Torino-Bardonecchia, quando al megafono spiegava le ragioni della manifestazione. Una vicenda su cui si era espresso anche il presidente di Amnesty Riccardo Noury («Esprimere il proprio dissenso pacificamente non può essere punito con il carcere»), con un appello per la scarcerazione, a cui hanno aderito le detenute di Torino.

Tra le firmatarie della lettera aperta diffusa ieri c’è anche Dana. «Nonostante l’esistenza di leggi che propongano un’alternativa alla carcerazione e quindi una risoluzione sia al problema del sovraffollamento, sia a quello del reinserimento sociale, troppo spesso – scrivono le detenute – non vengono applicate poiché soggette alla discrezionalità del magistrato competente».

Ritengono di scontrarsi «con il muro della severità di alcuni magistrati, che tendono a non applicare le misure alternative sminuendone così l’importanza e sminuendo inoltre i percorsi rieducativi che un detenuto intraprende». In una situazione già complicata si intrecciano gli effetti della pandemia dietro alle sbarre.

«Le regole di distanziamento per evitare il contagio sono impossibili da rispettare, pur volendo, all’interno del carcere a causa del sovraffollamento, delle celle non a norma, delle docce comuni. Ma anche del fatto che, pur essendo un ambiente “chiuso ed isolato”, questo vale solo per noi detenuti perché in realtà gli operatori entrano ed escono. Eppure, il rigoroso rispetto dei protocolli sanitari viene imposto quando effettuiamo un colloquio con i nostri familiari. E c’è un semplice calcolo che descrive in modo elementare qual è il nostro diritto all’affettività: 6 ore al mese di colloquio consentite per 12 mesi, pari a 72 ore l’anno, tre giorni. Questo vale per i detenuti comuni. Chi è al 41bis ne ha ancora meno».

I tre giorni «durante questo anno sono stati ridotti e durante il lockdown sostituiti da videochiamate di 25 minuti». Le firmatarie della lettera, «certe di riportare il pensiero dei nostri compagni nei padiglioni maschili e nelle altre carceri», sottolineano: «La gestione della prima ondata qui dentro è stata fallimentare. Il ministero ha applicato misure insignificanti dal punto di vista sanitario, ma improntate solo sul rispetto della “sicurezza”. Si sta creando una bomba sociale.

Si respira aria di sofferenza mista a rabbia per l’essere inascoltati, ultimi tra gli ultimi. Siamo come un malato a cui vengono vietate le cure dal proprio medico. Veniamo trattati come numeri di matricola, non come persone, così è controproducente sia per noi, sia per lo Stato stesso, che accoglierà gente più sfiduciata»

* Fonte: Mauro Ravarino, il manifesto



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