Crimini d’odio. Con il ddl Zan un cambiamento sociale non più prorogabile

Crimini d’odio. Con il ddl Zan un cambiamento sociale non più prorogabile

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Il d.d.l. Zan, approvato alla Camera il 4 novembre del 2020, ha una forte potenzialità trasformativa, capace di contribuire alla evoluzione di un diritto penale contemporaneo concretamente antidiscriminatorio. Il disegno di legge, tuttavia, continua ad incontrare le critiche e le opposizioni di alcuni/e ed a dividere anche chi da sempre è insieme nelle lotte per i diritti civili; questo breve contributo vuole dimostrare che tali critiche sono superabili.

È opportuno premettere che obiettivo della proposta di legge è quello di contrastare ogni forma di violenza e di discriminazione fondata sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere – nella dimensione relazionale ed affettiva di tali espressioni – nonché su specifiche condizioni di vita, quali sono quelle delle persone con disabilità, tramite un intervento legislativo di triplice natura: inclusiva perché riconosce tutte le dimensioni dell’identità, estendendone le tutele normative già esistenti per i soggetti vulnerabili; repressiva, mediante l’integrazione degli articoli 604 bis e 604 ter (che disciplinano crimini d’odio basati sulla razza, l’origine etnica, la nazionalità e la religione), estendendo la relativa tutela a diverse condizioni, proprie di un individuo e della sua identità, più esposte al rischio di subire atti di aggressione e di odio; propulsiva laddove il d.d.l. prevede alcune misure che mirano a promuovere socialmente l’eguaglianza e ad offrire supporto alle vittime del reato.

Ciò posto, una delle più diffuse fra le critiche mosse contro il d.d.l. è l’inserimento del genere femminile fra le minoranze da tutelare, poiché le donne costituiscono la metà della popolazione mondiale. È evidente, tuttavia, come il concetto di “minoranza” non sia qui da intendersi in senso numerico, bensì concettuale, a fronte delle discriminazioni e  violenze che le donne – a tutt’oggi – continuano a sperimentare in ambito privato, pubblico, istituzionale; è proprio a fronte della diffusione del fenomeno e della sua sistematicità, culturalmente radicata, che il genere femminile intero è stato pertanto preso in considerazione dal progetto legislativo. Il termine minoranza, inoltre, non deve far pensare ad una condizione di minorità, intesa come “debolezza” o “fragilità”, bensì allo svantaggio sociale di partenza che costituisce un dato di fatto, anche statistico, per tutte le categorie indicate, donne comprese, svantaggio che il d.d.l. si propone di contribuire a rimuovere. 

Altra critica si è focalizzata su una presunta incompatibilità del d.d.l. con gli artt. 21 Cost. E 10 CEDU, ossia con il principio della libertà di manifestazione del pensiero: al riguardo si osserva che è stata prevista una clausola c.d. “salva – idee” all’art. 4, che in linea con la giurisprudenza costituzionale e convenzionale fa salva la libera espressione, le convinzioni personali, le opinioni e le condotte legittime riconducibili alla libertà delle scelte. 

Il d.d.l. Zan, dunque, prende atto dell’inadeguatezza degli strumenti giuridici preesistenti a tutelare anche quelle discriminazioni e quei crimini d’odio che  – in particolar modo in Italia – colpiscono donne cisgender e transgender, altre soggettività LGBTQI+ e persone con disabilità nella propria imprescindibile libertà di autodeterminazione, garantendo loro il diritto ad esistere come gli altri, in un’ottica di universalità.
Peraltro, il testo dell’art. 604 bis, salvo che il fatto costituisca più grave reato, punisce chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione fondati sui motivi di cui all’art. medesimo, ed ancora chi propaganda idee fondate sulla superiorità e sull’odio nei medesimi casi, e ancora chi istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza. Ciò posto, il d.d.l. Zan non inserisce nella norma la punizione per chi propaganda idee, ma solo per chi istiga alla violenza o la commette.

Non si comprende quindi come possa contrastare con un’idea pluralista di democrazia un progetto di legge che si rivolge alla tutela di dimensioni identitarie, affettive, relazionali, afferenti alla libertà di autodeterminazione degli individui, mettendone in risalto il bene giuridico da proteggere – piuttosto che concentrandosi sulla circoscrizione delle singole condotte da reprimere.

Ancora, si sostiene che il d.d.l. Zan contrasti con l’art. 25 Cost., che prevede il principio di determinatezza della legge penale. A ciò si replica che le definizioni contenute nell’art. 1 del testo, peraltro limitate, non solo fanno ormai ampiamente parte del linguaggio comune ed hanno acquistato col tempo una riconoscibilità sociale, ma la stessa Corte Costituzionale, oltre alla normativa e giurisprudenza sovranazionale, ha avuto più volte modo di riconoscere e sottolineare il fondamento di tali espressioni (cfr. a titolo esemplificativo C. Cost. sent. 138/2010, C. Cost. sent. 221/2015, C. Cost sent. 221/2019, C. Cost. sent. n. 230/2020).

Ulteriori obiezioni si sono poi focalizzate sull’opportunità di configurare i moventi d’odio come aggravanti, senza introdurre fattispecie autonome di reato. Si deve tuttavia osservare come la configurazione di reati autonomi anziché di aggravanti abbia, fra le altre, la funzione di modificare ed indirizzare la cultura dei Magistrati stessi, così come avvenuto in materia di violenza di genere che col tempo è quasi andata a costituire una “parte speciale” nel Codice Penale ed ha consentito di contrastare stereotipi e pregiudizi di genere ancora purtroppo esistenti nelle aule giudiziarie. 

La previsione di semplici aggravanti non sembra idonea a sollecitare quel cambiamento giuridico-culturale che il d.d.l. Zan si propone di ottenere. Inoltre, si rileva come la contestazione di una aggravante debba passare prima dalla valutazione, non scevra da un certo grado di discrezionalità, del Pubblico Ministero nella formulazione del capo di imputazione, rientrando tra gli elementi contenuti nella richiesta di rinvio a giudizio proprio “l’enunciazione in forma chiara e precisa del fatto-reato e delle circostanze aggravanti”, in linea con le disposizioni del nostro Codice di Procedura Penale e dell’art. 6 lettera a) CEDU, per il quale ogni accusato ha diritto ad essere informato della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico.

Tale esigenza, nel caso di circostanze aggravanti le cui fattispecie si esauriscono in comportamenti materiali, non presenta grossi problemi; ma nel caso di aggravanti come quelle per i crimini d’odio, nelle quali – in luogo dei fatti materiali o in aggiunta agli stessi – la previsione normativa include componenti valutative, occorre che il risultato di questa valutazione sia esplicitato nell’imputazione medesima, altrimenti la contestazione risulterebbe priva della compiuta indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale.

Tale discrezionalità, aggiunta a quella dell’organo giudicante nell’interpretare il fatto in ottica antidiscriminatoria, demandata anche qui alla sensibilità del singolo giudice, spiega perché ad oggi, i casi di discriminazione raramente sono presenti nelle aule giudiziarie. Basti citare i dati dell’OSCAD (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori – http://hatecrime.osce.org/italy) per rendersi conto del deserto giudiziario esistente, dato dalla esiguità dei casi denunciati e di quelli sentenziati (In Italia, nel 2018, su 1111 casi tra denunciati e segnalati, solo 613 sono stati perseguiti e dui questi 46 sentenziati). 

Dai dati raccolti, combinando le segnalazioni OSCAD e i dati ufficiali contenuti nel “Sistema di Indagine – SDI”, differenziando quindi le due tipologie di dati: quelli SDI – estratti dal CED interforze – che riguardano reati con finalità discriminatorie che hanno “copertura normativa” e le solo segnalazioni OSCAD che comprendono invece ambiti discriminatori privi di specifica copertura normativa, emergono: la lacuna normativa esistente, l’enorme sommerso, la scarsa sensibilità da parte della società civile e la poca formazione sui crimini d’odio da parte di tutti quei soggetti, potenzialmente destinatari di questi fatti (Forze dell’Ordine, presidi sanitari, ecc.).

Di fatto, i crimini d’odio non vengono né denunciati (fenomeno del c.d. under-recording) per motivazioni quali: il non aver consapevolezza che l’aggressione subita sia motivata dal pregiudizio, la scarsa fiducia nelle Forze dell’Ordine, la paura di compromettere la propria privacy, il timore di subire ritorsioni; né vengono riconosciuti (fenomeno del c.d. under-reporting: scarsa sensibilità, mancanza di formazione, pregiudizi). A questo si aggiunge la necessità di prevenire al massimo il rischio di escalation delle condotte che trova fondamento dalla degenerazione  di comportamenti discriminatori minori, considerati erroneamente inoffensivi, che gradualmente degenerano in reati.

E’ dunque quanto mai urgente, come già si è sta facendo da anni per contrastare il fenomeno della violenza contro le donne, intervenire su tutte le diverse declinazioni dei crimini d’odio. Tutte le critiche mosse nei confronti del d.d.l. Zan dovrebbero cadere di fronte al principale punto di forza di questa legge: l’effetto propulsivo nei confronti di un cambiamento sociale non più prorogabile. 

Queste norme non mirano a creare alcuna corsia preferenziale o categoria privilegiata, il che costituirebbe tra l’altro un’ulteriore ghettizzazione, ma ad assicurare pieno riconoscimento giuridico a condizioni di vita e di esperienza che paiono ad oggi particolarmente meritevoli di protezione, con un approccio concretamente antidiscriminatorio, nel pieno rispetto degli art. 2 e 3 della Costituzione.

Il d.d.l. Zan costituisce un passaggio fondamentale verso il riconoscimento della matrice comune di tutte queste forme di discriminazione: una società patriarcale, dominata dalla cultura del potere maschile, realtà profondamente ineguale ed etero-normata che il femminismo da sempre combatte e che ad oggi dovrebbe costituire motivo di alleanza e non di scontro.

* Fonte: Be Free, il manifesto



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