Etiopia. Dopo la guerra nel Tigray arriva la carestia : «Crimine di fame»

Etiopia. Dopo la guerra nel Tigray arriva la carestia : «Crimine di fame»

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In Etiopia elezioni posticipate dal 5 giugno al 21 per permettere a tutti i cittadini di potersi registrare (anche se fissare il voto dopo l’inizio delle piogge potrebbe indicare la volontà di non far partecipare molte persone) con l’esclusione della regione settentrionale del Tigray (il che potrebbe rendere incostituzionale l’intero processo). Si doveva votare inizialmente ad agosto 2020, poi tutto è saltato per la diffusione del covid.

DAL 4 NOVEMBRE in seguito all’attacco della regione ribelle del Tigray il Paese sembra avvitato su tre questioni che nonostante i proclami non procedono verso una soluzione: la guerra contro il Tplf (con annessa questione delle truppe eritree), gli scontri sul confine nella regione del Benishangul con il Sudan, i problemi umanitari (gli ultimi dati Onu rilevano che nel Tigray il 90% della popolazione necessità di aiuti alimentari) e poi il mancato accordo con Egitto e Sudan sulla Grande Diga del Rinascimento Etiope. Le elezioni vengono “vendute” come la soluzione di tutti i problemi, ma è qualcosa che sta tra l’illusione, l’inganno e la propaganda. Emergono anche astiosità nei confronti dei media: giornalisti arrestati, permessi revocati (vedi corrispondente del New York Times Simon Marks).

Secondo gli attivisti dei diritti umani è una campagna deliberata messa in atto dal premier Abiy Ahmed per sedare la copertura critica del conflitto. «Situazione deludente – secondo Muthoki Mumo, rappresentante per l’Africa subsahariana del Comitato per la protezione dei giornalisti -. Da novembre almeno 10 giornalisti sono stati arrestati in relazione alla loro copertura del conflitto nel Tigray».

NEL TIGRAY alla guerra si è aggiunta la fame: secondo il sottosegretario generale per gli Affari umanitari Mark Lowcock «il 20% dei 6 milioni di tigrini dopo sette mesi di conflitto affronta una seria penuria di cibo». L’80% dei raccolti sarebbe stato distrutto e questo secondo alcuni non è solo un effetto indiretto della guerra, ma una scelta deliberata: un «crimine di fame». Secondo Onu, Usa e Regno unito siamo di fronte a un’imminente carestia su vasta scala nel Tigray. Le Nazioni unite avvertono il rischio del ripetersi della devastante carestia del 1984 in Etiopia e chiedono un immediato cessate il fuoco nel Tigray. Secondo il governo etiope sono stati consegnati aiuti alimentari a 4,5 milioni di persone, ma vi sarebbe una carenza significativa sulla parte non alimentare degli aiuti.

SULLA QUESTIONE è intervenuto il presidente degli Stati uniti Joe Biden che oltre a ribadire la richiesta del ritiro delle forze eritree e amhara dalla regione etiope del Tigray ha affermato che «deve essere garantito l’accesso umanitario immediato». Biden ha anche sostenuto che nel Tigray si stanno verificando violazioni dei diritti umani su larga scala, tra cui «violenza sessuale diffusa». Secondo Europe External Programme with Africa and Europe External Policy Advisors (EEPA) oltre agli abusi sessuali «nel corpo delle donne verrebbero immesse pietre, sabbia e metalli per renderle sterili».

Il ritiro dei militari eritrei (la cui presenza è stata per mesi negata) è stato annunciato più volte, ma dal 2 giugno secondo la rete Arbi Harnet due divisioni avrebbero iniziato a lasciare effettivamente il Tigray.

ALLE PAROLE DI BIDEN ha fatto seguito una manifestazione anti-Usa nelle strade di Addis Abeba a cui hanno partecipato più di 10 mila persone. Con cartelli critici nei confronti degli Stati uniti e altri di esplicito sostegno al presidente russo Vladimir Putin e al leader cinese Xi Jinping. Ma per il portavoce del ministero degli Esteri Dina Mufti l’Etiopia non è disposta a tornare all’era della Guerra Fredda, con i paesi allineati in due blocchi polarizzati: «Aspiriamo a stringere relazioni con i Paesi di ogni angolo del globo purché soddisfino l’interesse nazionale dell’Etiopia». Le geometrie variabili della diplomazia rischiano di avere tanti partner e nessun amico.

* Fonte: Fabrizio Floris, il manifesto

 



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