Uber. Per aggirare controlli e norme una strategia del caos

Uber. Per aggirare controlli e norme una strategia del caos

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L’INCHIESTA DEL CONSORZIO INTERNAZIONALE DI GIORNALISTI INVESTIGATIVI. Conducenti strozzati e rivolte, per entrare nei mercati bastava coltivare politici e investitori. In Sudafrica autisti connessi all’app 12 ore al giorno, costretti a versare il 25% degli incassi

 

La storia dell’ascesa della startup di San Francisco Uber, una delle piattaforme di lavoro più grandi al mondo, è tutta negli Uber files: 124mila documenti (dal 2013 al 2017) che l’ex top manager in Europa Mark MacGann ha fatto avere al Guardian, che li ha poi condivisi con il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi. Quella di Uber è un’operazione planetaria che si muove su due binari: invadere i mercati attirando autisti con provvigioni allettanti e poi sottrarle ai loro guadagni a vantaggio dei profitti; forzare le norme dei singoli Stati assoldando politici e media. The Guardian racconta la storia di Abdurzak Hadi di Londra: ha aderito a Uber nel 2014, poi però la piattaforma ha tagliato gli incentivi ai conducenti aumentando le commissioni, per guadagnare circa 23mila sterline, l’anno scorso, ha dovuto trascorrere tra le 40 e le 50 ore settimanali connesso all’app.

SUL WASHINGTON POST la storia di Shaun Cupido, autista Uber di Città del Capo, in Sudafrica. Nel 2017 noleggia un’auto e inizia a trasportare turisti. Per sbaragliare la concorrenza l’azienda recluta sempre nuovi conducenti così si dimezzano i clienti. Per mantenere i guadagni resta connesso all’app 12 ore al giorno, spingendosi nei sobborghi dove molti hanno paura ad andare. Poi Uber decide di consentire i pagamenti in contati e arrivano le rapine. Nel 2014 ai primi autisti di Città del Capo Uber offre un bonus una tantum e un incentivo fisso a viaggio. L’anno dopo l’incentivo è sparito, i manager Usa scrivono ai team di Medio Oriente e Africa: «È un buon momento per aumentare la commissione all’azienda dal 20 al 25% a corsa».

LO SBARCO DI UBER provoca proteste in ogni Paese. «In questo momento sei visto come aggressivo» scrive nel 2016 il primo ministro dei Paesi bassi, Mark Rutte, al cofondatore di Uber Travis Kalanick, poi costretto a lasciare la guida della società nel 2017 dopo le accuse alla società di molestie sessuali, discriminazione razziale e bullismo. «Cambiare il modo in cui le persone guardano all’azienda sottolineando gli aspetti positivi – il consiglio di Rutte -. Questo ti farà sembrare tenero». Uber aveva uno schema che applicava ovunque: penetrare nei mercati senza mediazioni con le parti sociali, scatenando la rabbia dei tassisti che vedevano la loro attività minacciata da concorrenti che non dovevano rispettare le stesse regole. Difronte alle proteste che arrivavano fino agli attacchi ai propri conducenti, i manager applicavano una strategia precisa: sfruttare la violenza a proprio vantaggio. Dettagli di un accoltellamento quasi fatale e di altri attacchi brutali sono stati rivelati ai media sperando di indirizzarne l’attenzione contro i taxi.

SE POI ARRIVAVANO I CONTROLLI bastava attivare il kill switch, un programma in grado di bloccare l’accesso ai server e impedire alle autorità di sequestrare prove. Un metodo utilizzato in almeno sei paesi: Francia, Romania, Paesi bassi, Belgio, India e Ungheria. Lo stesso Kalanick ne ha ordinato personalmente l’uso mentre la polizia era nella sede di Amsterdam («Per favore, premi il kill switch il prima possibile. L’accesso deve essere chiuso ad AMS»). E poi c’era la strategia denominata «Piramide di merda». Nel 2014, ad esempio, inizia l’espansione in Polonia. Il consulente Bartek Kwiatkowski chiede indicazioni su come organizzare il lancio, MacGann replica: «Non ci sono casi studio, fondamentalmente Uber viene lanciato e poi c’è una tempesta di merda normativa e legale».

SI FA IRRUZIONE e poi si affronta la piramide: le cause dei conducenti, le indagini, le procedure amministrative e il contenzioso. Per superare gli ostacoli c’è l’attività di lobbying con un budget di 90 milioni di dollari nel solo 2016. Quando Uber ha avuto bisogno di affermarsi in una città ha assunto ex funzionari, quando è stata accusata di infrangere le regole ha promosso petizioni di persone influenti per «salvare Uber», quando è servita una spinta ha pagato accademici per produrre ricerche favorevoli, su scala nazionale ha avvicinato i governi.

NEL 2017 era presente in oltre 80 paesi. Politici ed ex funzionari pubblici sono stati reclutati come lobbisti per cambiare le leggi in materia e lavorare sui controlli. David Plouffe è stato uno dei tanti ex assistenti di Obama che ha collaborato con Uber. Contatti assidui sono documentati con Macron, all’epoca ministro dell’Economia, molto impegnato ad ammorbidire la posizione del governo francese. Ieri Macron ha replicato: «Sono orgoglioso di aver supportato Uber, lo rifarei domani e dopodomani». Nei documenti ci sono anche i rapporti con l’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, l’allora primo ministro irlandese Enda Kenny e l’allora presidente dell’Estonia Toomas Hendrik Ilves. Nel 2016 al World Economic Forum di Davos, è l’allora vicepresidente Biden a cercare Kalanick. Fitti i rapporti con magnati delle telecomunicazioni come il francese Xavier Niel (Iliad) e dell’editoria.

* Fonte/autore: Adriana Pollice, il manifesto

 

 

Foto di Viktor_Laszlo da Pixabay



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