La dichiarazione di Cui Tiankai, ex viceministro degli esteri cinese, ha un chiaro scopo retorico: suggerire che l’integrazione occidentale a guida americana non ha funzionato e ha portato al conflitto in Ucraina, mentre l’Asia (con l’emergente guida cinese) funziona «senza guerre da decenni».

OPINABILE, ma così Cui vuole rinsaldare il sentimento di alterità (o «mutuo rispetto») diffuso tra diversi paesi asiatici e più in generale nel cosiddetto «sud globale».

Sentimento che porta a prospettive diverse da quelle occidentali, anche sulla guerra. Il simbolo di un solco che sembra essersi allargato è la proposta di pace dell’Indonesia. Durante il summit sulla sicurezza, il ministro della Difesa Prabowo Subianto si richiama alla «saggezza dei leader» di Stati uniti e Cina per evitare il conflitto in Asia.

Poi si lancia a sorpresa sull’Ucraina: «Propongo di firmare un documento congiunto per chiedere la fine delle ostilità». E articola un’idea di pace alla coreana: «Primo: cessate il fuoco. Secondo: istituzione di una zona demilitarizzata di 15 chilometri da entrambi i lati. Terzo: invio di forze di pace delle Nazioni unite. Quarto: referendum nei territori contesi per far decidere a loro da che parte stare».

L’ultimo passaggio fa sobbalzare i delegati occidentali presenti a Singapore, ma anche diversi asiatici. Soprattutto quelli di Vietnam e Filippine, che hanno dispute territoriali aperte con Pechino sul mar Cinese meridionale.

ALLE CRITICHE, Subianto replica accalorato: «Non equiparo aggressore e aggredito, in passato l’Indonesia e altri paesi asiatici sono stati aggrediti in maniera anche più sanguinosa. Ci sono anche altre guerre nel mondo. Ho fatto una proposta di pace, a che cosa serve l’Onu se non a risolvere i conflitti? La storia insegna che ci vuole un compromesso».

Una visione condivisa da altri, in Asia, magari con sfumature diverse rispetto alla proposta sui generis di Subianto. L’idea indonesiana è stata subito rintuzzata da Ue e Ucraina. Prima dall’alto rappresentante per gli esteri Josep Borrell: «Se vogliamo che la guerra finisca subito basterebbe smettere di mandare le armi all’Ucraina. Ma non vogliamo la pace del più forte, non vogliamo che l’Ucraina diventi una nuova Bielorussia. L’Europa vuole una pace giusta».

Ancora più netto il rifiuto di Oleksii Reznikov, ministro della difesa di Kiev. «L’Indonesia non ha parlato con noi e il suo piano sembra un piano della Russia. Non abbiamo bisogno di questa strana proposta».

Non è la prima idea a venire bocciata. Ci hanno provato anche Sudafrica e Brasile. Lula ha immaginato un compromesso col ritiro russo dal Donbass e il mantenimento della Crimea. Tutte visioni inconciliabili con la richiesta di ritiro completo.

C’è poi l’iniziativa cinese, una facilitazione più che una mediazione. Cui: «Non abbiamo una soluzione, il nostro sforzo ha l’obiettivo di aiutare l’avvio di un dialogo. E siamo aperti alle idee altrui, ma per ora vediamo arrivare solo armi», dice pungendo gli Usa.

IL CONFRONTO tra Washington e Pechino non è solo retorico. Un reporter canadese di Global News racconta di aver assistito a un rischio di collisione tra una nave da guerra cinese e il cacciatorpediniere statunitense Chong-Hoon, mentre si trovava a bordo di una fregata di Ottawa.

Teatro dell’incidente sfiorato: lo Stretto di Taiwan, epicentro della discordia. L’imbarcazione Usa è stata costretta a cambiare rotta dopo che quella cinese era arrivata a circa 150 metri di distanza. Il tutto pochi giorni dopo un’altra collisione sfiorata tra due jet, sul mar Cinese meridionale.

Prove muscolari che avvengono proprio durante il vertice di Singapore, dove le due potenze sono impegnate in uno scambio di accuse.

Il capo del Pentagono, Lloyd Austin, avvisa: «Una guerra su Taiwan sarebbe devastante». E critica Pechino per i tentativi di cambiare lo status quo, chiedendo però dialogo: «Il momento per parlare è ora», dice lamentando il mancato bilaterale con Li Shangfu. Il ministro cinese resta però sotto sanzioni Usa per un datato acquisto di componenti militari dalla Russia.

* Fonte/autore: Lorenzo Lamperti, il manifesto