Per ora, Netanyahu e la sua coalizione hanno pochi incentivi a indire le elezioni. I sondaggi danno in ampio svantaggio la maggioranza di destra religiosa: se si votasse ora otterrebbe 45 seggi sui 120 della Knesset, contro gli attuali 64. Invece un successo militare, come la cattura o l’uccisione del leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, rafforzerebbe la posizione di Netanyahu. Potrebbero però volerci mesi e forse non accedere mai, mentre Washington, le famiglie degli ostaggi e altre parti reclamano una tregua lunga, seppur non definitiva. Restano limitate le possibilità che il primo ministro possa colmare l’ampio divario che ha con il grande favorito, l’ex generale Benny Gantz (Unione nazionale, centrodestra), visto da molti israeliani come uno dei pochi politici non responsabili per il fallimento del 7 ottobre.

Benjamin Netanyahu foto Ap /Ronen Zvulun
Benjamin Netanyahu, foto Ap /Ronen Zvulun

Cosa accadrà tra mesi nessuno può dirlo. Una volta il segretario di stato americano Henry Kissinger ha detto che «Israele non ha una politica estera, ma solo una politica interna». Non aveva torto. Quindi, se oggi le elezioni sono descritte come di «cambiamento», più in avanti gli sviluppi potrebbero dare al dibattito politico un’altra piega. L’ingresso in mischia dell’ex capo del Mossad, Yossi Cohen, o il ritorno in campo dell’ex primo ministro di destra, Naftali Bennett, potrebbero creare novità rilevanti sul terreno politico. Guardando alla questione del controllo di Gaza che il gabinetto di guerra israeliano vuole strappare ad Hamas, la campagna elettorale già in atto potrebbe polarizzarsi tra il rifiuto totale della nascita di uno Stato palestinese e un approccio più favorevole a qualche forma di negoziato con l’Autorità nazionale palestinese (Anp). Su tutto preme la «Dottrina Biden», illustrata dall’editorialista del New York Times e voce dell’Amministrazione in carica, Thomas Friedman. Prevede un impegno Usa immediato per la creazione di uno Stato palestinese, azioni di forza contro l’Iran e i suoi alleati e la normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’Arabia saudita e il resto del mondo arabo. Uno scontro tra «soluzioni» che quasi certamente finirebbe per ricompattare l’elettorato di destra smembrato dal fallimento del governo e delle forze armate il 7 ottobre. Ne uscirebbe rafforzato Netanyahu che si è ripetutamente presentato come l’unico leader israeliano che può impedire la creazione di uno Stato palestinese: «Se qualcuno ha una linea diversa, dovrebbe mostrare leadership e dichiarare apertamente la sua posizione ai cittadini di Israele».

Alimentare l’opposizione degli israeliani a «concessioni» ai palestinesi e presentandosi come Mr. Security, è qualcosa che ha funzionato per Netanyahu in passato e potrebbe dargli ancora delle opportunità anche se ora è più complicato. Per l’analista e docente universitario Arie Dubnov, l’attuale governo vuole una guerra prolungata a Gaza sperando di recuperare consensi con un «successo» contro Hamas, ma, prosegue, il conflitto potrebbe trasformarsi in una guerra di logoramento per Israele e la sua economia e questo non aiuterebbe i disegni di Netanyahu. Allo stesso tempo, aggiunge Dubnov, «La probabilità che un governo di sinistra si materializzi appare scarsa. Molto più probabile è che gli israeliani saranno attratti da un leader aggressivo che esemplifichi forza e autorità, tipicamente un generale in pensione con una illustre carriera militare, con la capacità di assumersi responsabilità e superare le divisioni intra-ebraiche».

Per Jonathan Rynhold, del Centro Begin-Sadat per gli studi strategici, il governo israeliano che emergerà dalle elezioni, avrà al centro del suo programma le politiche nei confronti di Gaza. A suo dire anche un esecutivo guidato da Benny Gantz senza la destra estrema, il Likud di Netanyahu e più disposto ad accogliere le soluzioni di Biden, comunque condizionerà eventuali aperture ai palestinesi alla caduta di Hamas. Sarebbe limitato «dalla totale mancanza di fiducia dell’opinione pubblica nella possibilità che gli israeliani possano vivere in sicurezza accanto a uno Stato palestinese». In uno scenario del genere, la posizione degli ebrei ultraortodossi – che alla Knesset hanno una dozzina di seggi – potrebbe rivelarsi decisiva per la formazione di qualsiasi coalizione. Gantz li ha corteggiati ma sono sempre rimasti in stretta alleanza con la destra. Netanyahu sa di poterli tenere dalla sua parte quando il paese andrà a votare e di poter ribaltare tutti i pronostici.

* Fonte/autore: Michele Giorgio,  il manifesto