Dopo Rebibbia. Tossicodipendenti e malati psichici nelle celle

Dopo Rebibbia. Tossicodipendenti e malati psichici nelle celle

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Le carceri sono stracolme di persone che hanno problemi di salute fisica e psichica, nonché di persone che in qualche modo hanno avuto una storia più o meno lunga di dipendenza con le sostanze stupefacenti. Non è facile censirle tutti, ma una sorta di indagine globale penitenziaria biografica potrebbe forse ben dimostrare che la maggioranza delle persone recluse è costituita in qualche modo da potenziali utenti del sistema del welfare.

Quando accadono fatti tragici come quello recente di Rebibbia ci si stupisce, indigna, commuove. La morte di due bimbi innocenti sconvolge le coscienze. È però importante che le coscienze sconvolte si trasformino in coscienze critiche. In carcere vi è la sofferenza delle nostre periferie, si incontrano gli scartati di un sistema di welfare in crisi. Accade però che le istituzioni si lavino le coscienze sospendendo dal servizio funzionari di alto profilo umano e professionale e non guardino minimamente al modello sociale e penale dentro cui stiamo tutti affondando.

La vicenda è trattata in modo non complesso come se quelle due vite tenere potessero essere salvate tenendo ammanettata a vita la mamma oppure ponendo madre e figlia sotto controllo ossessivo. Non ci si interroga invece sul fatto che il modello proibizionista e securitario produce dolore, violenza, ghettizzazione. Non ci si interroga sul fatto che in Italia è morto il dibattito intorno a un differente trattamento della questione droghe, che invece continua a essere chiusa dentro il circolo vizioso di una ideologia repressiva e illiberale. Quante vite avremmo salvato, a partire da Stefano Cucchi, se i nostri giovani non avessero dovuto rischiare la libertà personale in quanto consumatori di sostanze?

Nelle scorse settimane è stata pubblicata la nuova edizione di uno straordinario volume scritto dal compianto Massimo Pavarini e da Dario Melossi (Carcere e fabbrica, Il Mulino). Andrebbe letto e spiegato a chi semplifica la tragedia di Rebibbia e la tratta come un fatto di custodia male organizzata.

Il carcere è selettivo e seleziona sulla base della classe di appartenenza, della nazionalità, del censo, della salute psico-fisica. Il carcere, grazie a molti operatori (direttori, poliziotti, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi) appassionati e bravi come quelli che operano nella sezione femminile di Rebibbia diventa una sorta di tempo supplementare dove a volte è possibile rientrare in contatto con il mondo perso dei servizi. Doppie e triple diagnosi sono spesso per la prima volte certificate dentro gli istituti di pena. Detenuti con gravi problemi psichici o di dipendenza sono talvolta affidati alle sole mani dello staff penitenziario.

Ci vorrebbe invece una rivoluzione copernicana, a partire da un’inversione delle politiche proibizioniste sulle droghe (come ha fatto di recente il Sudafrica) fino a un massiccio investimento di risorse nel sistema socio-sanitario.
In attesa della rivoluzione copernicana speriamo che, così come molte associazioni laiche e cattoliche hanno richiesto, si riammettano in servizio le brave e qualificate dirigenti del carcere femminile di Rebibbia sospese dal ministro di Giustizia Bonafede.

* Fonte: Patrizio Gonnella, IL MANIFESTO



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