Venerdì di sangue in Siria 30 morti nelle proteste

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DAMASCO – Il terzo venerdì di protesta, la Siria è davanti a un guado bifronte: da un lato c’è la strada insanguinata di Dera’a, lastricata da almeno una trentina di morti; dall’altro, la piazza in festa per la “liberazione” di Duma, alle porte della capitale. Attraverso il Paese, sfilano cortei piccoli e grandi, a Qamashli nel Nord Est curdo, a Latakya, Tartous e Banyas lungo la costa, a Homs e Hama, verso il Nord, dove si contano altri morti, mentre Damasco e Aleppo, le due città  più importanti, se ne stanno ai margini, a osservare. Dera’a si conferma l’epicentro della ribellione. Nonostante la hudna, la tregua dopo il dialogo intavolato con le autorità , ieri si affollano in migliaia. Vogliono «far ascoltare la propria rabbia», scandiscono, «perché le richieste non sono state esaudite». Pretendono «la punizione dei responsabili dei morti; la fine immediata della legge marziale» prima del 25 aprile, la scadenza ufficiale, e il ritiro dell’esercito. Ma è da poco passato il mezzogiorno, la fine della preghiera, che già  la moschea Omari s’improvvisa un ospedale da campo. Si parla di corpi lasciati sull’asfalto, di appelli al soccorso dei medici. Le versioni sono contrastanti: i ribelli accusano le forze di sicurezza d’avere esploso raffiche sulla folla, e questo dopo le garanzie che nessuno avrebbe più sparato. La tv di Stato mostra uomini col volto coperto, appostati con le pistole. La conclusione è un giorno di sangue: da 22 a 30 i morti confermati da testimoni, 19 poliziotti uccisi e 75 feriti secondo l’agenzia ufficiale Sana. Cinque vittime a Homs, e spari anche a Hama, teatro nel 1982 della repressione ordinata da Hafez al-Assad. Il grido di Dera’a rimbalza in altre piazze, scese al suo fianco e per chiedere le libertà , ma in schiere più esigue. Infatti, la strage nella cittadina frontaliera cade all’indomani di un giovedì, che anche i “twitterati” volevano “storico”. Era stata concessa, in particolare, la cittadinanza ai curdi di Al Halaka – circa 200mila – a chiusura di un lungo capitolo di “discriminazione”. S’era vista la rimozione del governatore di Homs, inviso per la sua corruzione. I giovani s’erano rallegrati dopo l’abrogazione del vaglio dei mukhabarat, la polizia segreta, per ottenere certi documenti. Soprattutto, la scena di Dera’a è in lampante contrasto con quella offerta da Duma. Ieri, come da due giorni, la piazza davanti alla moschea è una Hyde Park orientale. Su due palchi nuovi di zecca, si avvicendano i leader dei neonati comitati popolari. Predicano i valori universali della Hurryia, Libertà , e della Karama, Dignità . Invocano stato di diritto, giustizia, eguaglianza, e “Gloria e eternità  ai martiri”. La centrale del mukhabarat militare è vuota. I reparti di sicurezza sono stati richiamati, esaudendo le richieste locali. Gli accessi al centro sono vigilati da check point popolari: giovani cortesi, istruiti, benestanti, com’è in prevalenza la popolazione di quel luogo. In un angolo, gli shebab stazionano assieme alla polizia: ispezionano auto e passeggeri alla ricerca di armi e dei “maledetti mundaseen”, i cecchini, gli infiltrati. C’è una folla di almeno diecimila persone. «È un venerdì arabo per eccellenza», gonfia il petto Maher, 30 anni, occhi trasparenti. Pensa anche alla solidarietà  in arrivo dagli egiziani scesi in piazza Tahrir al Cairo, in simultanea. Mostra le due bandiere unite da un cuore e la scritta «Da piazza Tahrir alla Siria con amore». Ma quando il tramonto esplode dietro al crinale, il calvario di Dera’a smorza gli entusiasmi. «Finché non vedremo in tribunale i responsabili delle stragi», dice Yazan, 29 anni, «la festa che ora lei vede può svaporare, come un miraggio».


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