A Misurata si lotta strada per strada Gli Usa: forse trentamila morti civili

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BENGASI — Tremila uomini delle truppe di Gheddafi armati fino ai denti asserragliati nel cuore di Brega, città  sul golfo fra Bengasi e Ras Lanuf. Tremila disperati e una trattativa in corso per capire che strada prenderanno le loro vite e quelle dei ribelli che li tengono d’occhio a distanza, senza osare l’attacco. Questo raccontano i guerriglieri della rivoluzione sulla linea del fronte, alle porte di Ajdabiya, spartiacque fra il territorio liberato dagli insorti (a nord-est del Paese) e quello controllato dai gheddafiani oppure diviso fra gli uni e gli altri. La Cirenaica ribelle fa i conti con la resistenza degli uomini del raìs a Brega, appunto, a Ras Lanuf, a Kufrah (sud-est). Ma anche a Dehiba-Wazin, alla frontiera con la Tunisia, dove alcuni proiettili di artiglieria hanno passato il confine e raggiunto il suolo tunisino. E poi a Zintan, a sud di Tripoli, dove i lealisti attaccano bombardando con i razzi Grad. I racconti che arrivano dalla capitale, ancora saldamente nelle mani di Muammar Gheddafi, svelano una situazione sempre più critica. È difficile trovare soprattutto cibo e benzina e la città  è scossa dalle continue esplosioni al passaggio degli aerei Nato. Almeno quattro boati ieri all’alba e altri, fortissimi, nel primo pomeriggio. Nessuna notizia sulle conseguenze. Ma è sempre Misurata la città  simbolo della tragedia libica. È lì che si combatte strada per strada, che cresce il numero di feriti e morti fra i civili, che i ribelli subiscono le perdite più dure (11 di loro uccisi da fuoco amico e 7 dai lealisti solo nelle ultime 24 ore). Ieri, a metà  giornata, mentre i Tornado italiani armati di missili erano in missione sul suo territorio, un migliaio di profughi, fra i quali centinaia di nigeriani, sono approdati nel porto di Bengasi: sono famiglie intere con bambini, feriti, malati, vecchi. Le loro vite sono rimaste come sospese per giorni e giorni, nel porto di Misurata, con i gheddafiani che bombardavano e loro in attesa che qualcuno attraccasse per salvarli. Ci è riuscita la Red Star One, una nave dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. E dopo venti ore di navigazione è stato per tutti come sbarcare in un’altra Libia. In quella folla di umanità  in fuga c’era anche Baptiste Dubonnet, giornalista francese ferito alla nuca da un proiettile vagante il 23 aprile. E ci sarebbero da adesso altri quattrocento rifugiati pronti a imbarcarsi sulla prima nave per lasciare la città  martoriata dalle bombe. Gli Stati Uniti hanno stimato fra le 10 e le 30 mila vittime civili dall’inizio delle operazioni militari e la situazione umanitaria continua a peggiorare, ci sono migliaia di lavoratori stranieri che vorrebbero lasciare il paese e altrettanti libici che per fuggire premono sui confini della Tunisia e dell’Egitto. Dai vertici del Consiglio nazionale di transizione arriva una nuova richiesta di aiuto all’Occidente, per bocca di Adel Fattah Younis, generale, ex ministro degli Interni del regime di Gheddafi e adesso Capo di Stato maggiore degli insorti. «Abbiamo bisogno di armi» ha spiegato nella sua visita a Bruxelles l’uomo che per 42 anni è stato fra i più fidati del raìs. «Gheddafi è disperato ma sfortunatamente dispone ancora del 25%delle sue armi chimiche, che potrebbe utilizzare vista la sua situazione» . Nessuno meglio di lui può sapere di cosa davvero dispone il colonnello. Quindi di nuovo la preghiera: «Abbiamo bisogno di armi, ma non quelle leggere. Ci servono elicotteri Apache, missili anticarro e navi equipaggiate con siluri. Prego la società  civile e l’Onu di costringere Gheddafi a lasciare Misurata con tutti i mezzi, per salvare i bambini di quella città  e dar loro un futuro» . Il generale conosce fin troppo bene il dittatore: «Un uomo arrogante» , dice, uno che «non accetterà  mai di ritirarsi» , che «si batterà  fino alla morte dopo aver rifiutato l’esilio» . E, se Younis ha ragione, «o verrà  ucciso o si ucciderà » .


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