«Wal-Mart 1, lavoratrici 0». Stop alla class action

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Troppe e troppo diverse le condizioni delle possibili querelanti, dalle manager mancate alle lavoratrici a paga oraria: un numero che avrebbe potuto avvicinarsi a 1 milione e seicentomila persone, per risarcimenti stimabili in miliardi di dollari. Senza considerare il rischio di un effetto a catena, che avrebbe trascinato nelle stesse pastoie anche altre grandi aziende.

Un’enormità , per una corte che – scrive il New York Times – ha fama di essere pro-business. E che ha sentito tutto il peso del trovarsi davanti al più importante caso di discriminazione sul lavoro della storia degli Stati Uniti. Non è un caso che più di venti società  di tutti i settori – nel numero Intel, Bank of America, Microsoft e General Electric – abbiano presentato alla Corte Suprema memorie a sostegno di Wal-Mart, il più grande datore di lavoro privato del mondo. Dall’altra parte della barricata, associazioni a difesa dei diritti delle donne e dei consumatori.

Un braccio di ferro tra business e lavoratori, con un potenziale esplosivo, cominciato in sordina nel 2000 con la denuncia di Betty Dukes, che accusò l’azienda di non aver ricevuto il training necessario per ricevere una promozione a differenza dei colleghi maschi. La causa è cresciuta  strada facendo, prima sei querelanti poi l’ambizioni di promuovere una class action al femminile. Perché, questo hanno sostenuto gli avvocati, a parità  di mansione le lavoratrici di Wal-Mart hanno ricevuto paghe più basse e poche promozioni: sono solo il 14% del management dell’azienda, nonostante l’80% della manovalanza dei megastore sia donna.

I giudici non hanno deliberato sulla sostanza delle discriminazioni, ma sulla forma della querela e si sono divisi – 5 a 4 – sulla possibilità  di riformulare il ricorso. Una divisione basata su differenze ideologiche ma anche sessuali. Tutte e tre le donne della Corte hanno votato per dare alle querelanti una nuova chance. Ma la maggioranza conservatrice ha stabilito che trattamento salariale e promozioni sono frutto di decisioni affidate ai manager di ciascuno dei 3400 grandi magazzini. Casi singoli, non imputabili alla politica aziendale che formalmente bandisce le discriminazioni di genere. Al contrario la giudice Ruth Bader Ginsburg ha sostenuto che proprio la discrezionalità  concessa ai manager delle singole filiali è il filo conduttore della politica aziendale, che ha portato alle discriminazioni, quanto meno per assenza di controlli.

Per procedere contro Wal-Mart ora  ogni lavoratrice sarà  un caso a sé ed è evidente che la partita con la mega-azienda sarà  tutta in salita. «La corte ha detto ai datori di lavoro che possono prendersela comoda, sapendo che quanto sono più grandi e potenti, tanto meno i loro impiegati avranno la possibilità  di unirsi per far valere i propri diritti», è stato il commento di Marcia D. Greenberger, co-presidente del National Women’s Law Center. Quasi un paradosso, considerando che la prima legge firmata da Obama presidente porta il nome di Lilly Ledbetter, una lavoratrice che fece causa alla Goodyear dopo aver scoperto di aver ricevuto per 19 anni una paga inferiore solo per il fatto di essere donna.

Il tribunale le diede ragione, ma la sentenza non ebbe seguito perché i giudici stabilirono che il ricorso era stato tardivo. Chissà  che non accada anche alle lavoratrici della Wal-Mart. D’altra parte, discutendo della causa, il giudice Roberts si è chiesto se era poi vero che l’azienda avesse trattamenti salariali tanto diversi dalla media nazionale. Come se essere in linea con la discriminazione media fosse una buona ragione per continuare così.


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