La società  dell’abbondanza nel secchio della spazzatura

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 Il trashing è una pratica attraverso la quale si acquisicono dati e informazioni su qualcuno frugando nella sua spazzatura. In questa maniera si possono recuperare non solo conti, bollette, ricevute, fatture ma anche altre tracce, le più disparate, in modo da delineare un quadro abbastanza preciso delle abitudini di vita – anche le più intime – del soggetto posto sotto osservazione. Immaginate adesso di applicare questo metodo non ad un singolo individuo ma ad una intera società  e di portare avanti l’indagine per un periodo di tempo lungo, diciamo all’incirca due secoli. Potranno venir fuori i meccanismi più profondi, i fondamenti più reconditi su cui si basa la società  in oggetto, le pratiche di inclusione e di esclusione messe in opera, i mutamenti anche radicali che nell’arco di tempo in esame l’hanno attraversata.

Ecco, sembra esser stato proprio questo il metodo utilizzato da Cinzia Scarpino per il suo US Waste. Rifiuti e sprechi d’America. Una storia dal basso (Il Saggiatore, pp. 325, euro 23). Ricercatrice presso la cattedra di Cultura angloamericana dell’Università  degli Studi di Milano, redattrice di una rivista fondamentale nel settore degli studi sul Nordamerica come àcoma, l’autrice però non si è limitata ad un’indagine statistica o socioeconomica sui rifiuti negli Stati Uniti, ma ha sapientemente allargato lo spettro della sua indagine. Innanzi tutto ha identificato l’oggetto della ricerca in quello che viene espresso col termine inglese waste, che non vuol dire semplicemente rifiuto ma è una parola dal significato più ampio, quasi ambiguo, riconducibile, oltretutto, etimologicamente ai termini latini vastus («disabitato», «vasto») e vastare («distruggere», «guastare», «devastare»). Waste, infatti, «nella sua triplice declinazione di sostantivo, verbo e aggettivo racchiude in sé molti significati: rifiuti, scorie, scarti, sprechi; desolato, disabitato, devastato; sprecare, buttare via, far fuori». Non si è limitata quindi a frugare nell’immondizia o ad individuare gli sprechi, ma ha allargato l’orizzonte d’indagine all’uso degli spazi disabitati, alle devastazioni, a tutto ciò che è stato e viene continuamente fatto fuori, escluso.
Non solo, la scelta di uno sguardo in qualche maniera multiplo, incentrato su punti di vista differenti, legati non soltanto alla sociologia e alla storia, ma arricchiti dal contributo di discipline come la letteratura, la storia dell’arte, la fotografia, i cosiddetti Enviromental Studies, ha consentito a Cinzia Scarpino di offrire una visuale panoramica e puntuale sulla società  americana, cogliendone le implicazioni metaforiche, i legami nascosti tra livelli materiali e simbolici, le ragioni più profonde dei mutamenti avvenuti. Nel libro, così, si parla di rifiuti, di scarti, ma anche di scarti umani, di pratiche di esclusione, di waste lands, del nesso quasi inscindibile tra abbondanza e sperpero, di come il pur multiforme discorso sul waste, inteso appunto nel suo significato più ampio anche metaforicamente, segua in fondo «una medesima logica spaziale di rimozione (dalle aree residenziali delle città  e dai centri popolati in genere) e contenimento (nelle periferie urbane e nelle regioni desertiche del paese)».
Naturalmente, una materia così vasta ha bisogno per essere trattata di una struttura ben precisa. E l’autrice ha optato per una tripartizione di tipo tematico. Così si parte prendendo in esame «la centralità  dello “spreco” e del cattivo uso del territorio nella storia “ambientale” dell’Ovest e del Midwest», iniziando ad analizzare quelli che sono stati i miti fondativi americani, incentrati sulla visione del Nuovo Mondo come «terra di latte e miele», dove fin dall’inizio l’abbondanza si coniuga in modo inestricabile agli sprechi, i quali «rappresentano la libertà  ultima di poter disporre della prima – dono al nuovo popolo eletto – senza restrizione alcuna». Si parla di discariche e carne, dalla strage dei bisonti alla carne in scatola e al Big Mac. Di agricoltura, di territori trasformati in granai e poi in «catini di sabbia». Di petrolio, di legname e di dighe, fino ad arrivare al nucleare e ai più recenti disastri ecologici marini. Si raccontano le trasformazioni di intere città  grazie all’impatto dell’industria della carne o dei processi di taylorizzazione che hanno investito settori a prima vista difficilmente compatibili con tale organizzazione del lavoro, come l’industria del legno. Si comincia a delineare, insomma, quella storia dal basso promessa nel sottotitolo del libro. Nella seconda parte, Arcipelaghi di rifiuti, lo sguardo si sposta sulle realtà  urbane e si concentra sulla storia dei rifiuti intesi sia in senso proprio, materiale, sia metaforico, incentrandosi sulle città  di New York, Chicago e San Francisco e sui luoghi deputati al contenimento degli scarti: isole-penitenziario, isole-discarica, isole-cimitero.
Nella terza parte, infine, si racconta l’esplosione dei consumi e l’affermarsi di una mentalità  del tutto slegata da qualunque forma di parsimonia e di riciclo. In questa sezione si scoprirà  come si sia passati dall’automobile che dura una vita (la mitica Ford modello T) a quella da cambiare ogni anno (geniale strategia di marketing della General Motors). Quando e perché si sia deciso di introdurre il piombo nella benzina. E si vedrà  come l’introduzione delle vendite rateali sia avvenuta proprio negli anni della Grande Depressione. Si narrerà  l’affermazione dei primi prodotti usa-e-getta (pannolini e assorbenti igienici). Per arrivare, dopo il grande boom degli elettrodomestici e l’affermarsi dei supermercati, allo stile di vita attuale della borghesia bianca statunitense, tra villette nei suburbs e acquisti – e non solo – nei grandi malls. Saggio approfondito, storia viva di una nazione all’ombra dello spreco e dei rifiuti, arricchito da una scrittura chiara e, spesso, addirittura avvincente, US Waste, come tutti i testi più riusciti relativi agli Usa, lascia alla fine nel lettore quella sensazione che non solo e non tanto di America si stia parlando, quasi che gli dicesse, ancora una volta, de te fabula narratur.


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