Islanda. Tre anni fa il crac, oggi la rinascita economica

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REYKJAVIK
Si vede. Laugavegur, la via più elegante della capitale, è (compatibilmente con gli standard locali) affollata come ai bei tempi. «Ho già  venduto tre costumi di Santa Klaus a settembre – esulta Anne, commessa nello storico negozio di addobbi natalizi – . Non succedeva dal 2007, la gente ha voglia di festeggiare». «Siamo finiti all’inferno. Ma ora eccoci qua. Siamo tornati!» conferma Gudfinnur Haldarsson nell’ufficio della Bilasala Gudfing, la sua concessionaria d’auto usate. Lui, negli anni, d’oro, tirava le fila della catena di Sant’Antonio delle Porsche: «Sembrava di vivere nel paese dei balocchi – ricorda senza nostalgia – . Marinai e allevatori passavano il tempo comprando e vendendo azioni con soldi presi a prestito. Guadagnavano, sulla carta s’intende, soldi a palate. Poi venivano qui e volevano, a tutti i costi e sempre a prestito, le Carrera 911». Non pagavano la prima rata? Poco male: «Sono riuscito a piazzare la stessa macchina per sei volte in un anno a prezzi sempre più alti!». Altri tempi. Oggi, esplosa come un geyser la bolla speculativa, gli islandesi e Halldarsson sono tornati con i piedi per terra e, nel piazzale a picco sulle acque grigie dell’Atlantico, di Porsche non c’è traccia. Poco male: il bottino di fatture staccate negli ultimi tre giorni («due Athos, una Opel Omega e una Land Cruiser del 2006 vendute, il record dal 2007») è più che sufficiente «per tornare a regalarmi una settimana di sci a Selva di Val Gardena».
L’Europa applaude con un pizzico d’invidia. La ricetta che ha fatto rinascere Reykjavik dalle sue ceneri è l’opposto di quella lacrime e sangue somministrata oggi alla Grecia. Atene, per la gioia di Berlino, non può permettersi l’ingrediente principale: la svalutazione del 60% della corona. E nemmeno, nel rispetto del bon ton europeo, la foga vichinga con cui la democrazia più antica del mondo ha preso il toro della speculazione per le corna. «Destra o sinistra, poco importa. Nessuno qui ha mai pensato nemmeno per un secondo di far pagare il conto del crac agli islandesi», dice Thor Gylafson, economista dell’università  di Islanda. Quando tre anni fa la valanga di un debito arrivato al 1.100% del Pil (in Grecia siamo al 150%) ha travolto l’isola, il premier conservatore Geir Haarde – oggi sotto processo per le negligenze di allora – non ha avuto dubbi: ha trasferito i risparmi dei suoi concittadini dalla sera alla mattina nei conti correnti di tre banche nuove di zecca e ha abbandonato al loro destino i creditori stranieri, congelando i loro soldi nei vecchi istituti, finiti in liquidazione.
Il nuovo governo socialista del premier Johanna Sigurdardottir ha battuto la stessa strada. «Il senno di poi ci dice che non abbiamo sbagliato», dice il ministro alle Finanze Steingrimur Sigfusson. Morale: tre giorni dopo il crac gli islandesi son tornati a prelevare le loro corone dai bancomat di Reykiavik mentre il resto del mondo (esposto per 85 miliardi tra bond, conti correnti congelati e azioni in portafoglio) è rimasto a becco asciutto, appeso a procedure fallimentari da cui, se tutto va bene, recupererà  il 30% del capitale investito. L’opposto di quanto sta accadendo ad Atene dove il pedaggio più salato alla crisi lo pagano i greci.
«Qui da noi non poteva succedere: ci conosciamo tutti – dice Besasson – . Siamo in pochi e abbiamo fatto quadrato. Sindacati e imprenditori. Pescatori e agricoltori. A remare contro è l’oligarchia dei finanzieri e dei grandi armatori che dalla bolla speculativa ha solo guadagnato». Certo, 4mila persone, tra cui mille elettricisti, hanno lasciato l’isola per cercare fortuna all’estero. Un’enormità  per una nazione che ha meno abitanti (320mila) di Bari. Ma una volta nazionalizzato il sistema finanziario, la priorità  del governo è stata quella di tutelare i redditi dei cittadini, già  messi a dura prova dagli investimenti bruciati in Borsa, dai prestiti scaduti e dall’inflazione. Gli stipendi non sono stati tagliati, le pensioni sono rimaste ferme. «E per evitare un avvitamento della crisi abbiamo puntellato il mercato del lavoro con una serie di politiche di sostegno», dice il numero uno del sindacato. «Io ho perso il posto nel febbraio 2009 quando la società  di costruzioni per cui lavoravo è saltata – racconta Karol Yarzinska, 26enne immigrato polacco sbarcato qui nel 2006 e fermo all’alba sul molo del porto sotto una pioggia sottile – . Non ho un mestiere ok, ma il sussidio di disoccupazione che mi scadrà  nel 2013 è di mille euro al mese. E con qualche ora di lavoro saltuario a scaricare casse di merluzzo dai pescherecci faccio quadrare i conti. A casa mia, a Lodz, starei peggio».
La rete di protezione sociale ha funzionato: «Lo stato garantisce 6 mesi di stipendio per l’apprendistato nelle aziende e in genere il 60% dei disoccupati entrati in questo programma sono assunti», calcola Besasson. I fondi per la formazione al lavoro e l’educazione «sono stati quintuplicati malgrado i tagli alla spesa pubblica». E i risultati sono sotto gli occhi di tutti: «Due anni fa c’erano 18mila islandesi senza lavoro, il 10% della popolazione attiva – calcolano all’Istituto di statistica – ad agosto sono scesi a 11.294, il 6,7%».
Numeri precisi all’unità . Perché nel paese dove tutti sono in grado di ricostruire il proprio albero genealogico fino all’anno mille, nessuno viene lasciato indietro. «Io facevo il pescatore sulla Mars, ho combattutto a colpi di speronamenti la guerra del merluzzo con i pescherecci inglesi (altre armi non erano possibili, l’Islanda non ha un esercito, ndr) racconta Eyseinn Georgsson davanti a un bicchiere di Brennevin, la grappa locale – . Poi due anni fa sono caduto dal ponte superiore, un volo di cinque metri tra le cime delle reti, rompendomi la spalla. Eravamo in piena crisi ed ero convinto che sarei finito sul lastrico». Invece no. Il governo gli ha procurato una licenza da taxista e lui è riuscito a finire di pagare l’università  al figlio.
Ora Reykjavik, risanata, vuole entrare nell’euro. C’è da risolvere il caso Icesave (i rimborsi da 5 miliardi ai risparmiatori inglesi e olandesi coinvolti nel crac). Restano da sciogliere i nodi storici delle quote per la pesca al merluzzo e dei sussidi all’agricoltura («un chilo d’agnello islandese costa 1.700 corone da noi e 700 a Torremolinos», si lamenta Halsarsson). «Ma la strada è segnata. Se vogliamo archiviare definitivamente il crac, dobbiamo bussare alla porta dell’Europa», è la parola d’ordine di Arnason. L’importante, con i tempi che corrono, è che trovi qualcuno che gli apra.


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