«Due bimbi in marcia nel deserto Così mio padre e mio zio si salvarono»

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È il 1916, i due fratelli Serapian, sette e cinque anni, attraversano il deserto dell’Anatolia e raggiungono Aleppo. «Mio padre e mio zio erano troppo piccoli, i ricordi sono confusi»: le carovane dei deportati, una famiglia numerosa, la madre separata dagli altri, i maschi uccisi. La rete di assistenza che li salva dal massacro li porta in Siria e poi li imbarca per Corfù, dove c’è un collegio del Pari Korzagan, l’unione di beneficenza armena. È il 1923 quando i due fratelli arrivano dai padri mechitaristi a Venezia. Il maggiore, Stepan, conserva il cognome Serapian, il più piccolo, Aramays, per un errore di trascrizione alla frontiera italiana diventa Serabian. I percorsi si dividono.
«Uno può studiare, l’altro deve lavorare: è così che, quindicenne, mio padre Stepan arriva a Milano». Anche qui trova un collegio. «Mussolini, colpito dai resoconti dell’ambasciata in Turchia, aveva messo a disposizione una struttura in viale Umbria, angolo Risorgimento. Quando piove si vede ancora la scritta, non l’hanno cancellata del tutto…».
Il giovane Serapian al principio dorme lì, di giorno fa l’aiutante pasticciere. I mechitaristi gli trovano, quindi, una stanza presso due donne che cuciono tomaie. È lì che prende forma la seconda storia di Stepan/Stefano Serapian, pellettiere celebre tra le signore delle buona borghesia già  nel dopoguerra, ora marchio tra le vetrine di lusso di via della Spiga.
In zona piazzale Loreto, resta il negozio storico, con il laboratorio a vista, il profumo di pelle tagliata e intrecciata, gli artigiani col camice bianco. Ardavast, l’erede, 59 anni, parla a un tavolo quadrato, il pavimento abbagliante, circondato da un’esposizione di modelli di ogni foggia e colore. Sulla stessa via, appena di fronte, c’è la chiesa armena. La comunità , tremila persone in Italia, la maggior parte a Milano, si salda anche intorno alla religione, cristiana. E ai centri culturali ancora attivi, come quello di piazza Velasca.
«L’armeno non lo parlo bene — confessa Ardavast —, lo capisco, mia madre del resto era italiana, in casa non lo usavamo». La moglie, però, è armena. E alla terza generazione la lingua è risorta: il figlio Stefano — che studia Chimica a Londra — ha preso lezioni, dunque lo parla.
Soprattutto, lo cucina. I dolmà , per esempio, involtini di riso, pinoli e cipolle, avvolti in foglie di vite. «È quello che ci unisce ai turchi», compare Stefano nella stanza dell’esposizione, sorridente e informale: «Eravamo a cena con amici turchi l’altra sera — racconta, con il cugino Giovanni Nodari — ci provocavano sulla vicenda della Francia». Offesi? «Ma no…». «Il problema non è con la gente — interviene il padre —, è solo politico». E se nei libri di scuola a Istanbul o Ankara non è scritto «genocidio» e «diaspora», c’è la famiglia Serapian a tramandarsi la Storia di padre in figlio.


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