Milano, la ‘ndrangheta infiltrata nella Finanza “Quarantamila euro al mese per chiudere un occhio

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MILANO – Le Fiamme Gialle e i boss, i servizi segreti e i colletti bianchi, le ombre sul Ros e i dubbi di Ilda Boccassini della Dda milanese, alla ricerca delle talpe. L’ultima inchiesta su ‘ndrangheta e istituzioni infedeli non scoperchia solo un (quasi) ordinario scenario di malaffare, ma proietta ombre micidiali. Perché finisce il nome di Niccolò Pollari, l’ex direttore del Sismi, nel calderone delle potenziali fonti della criminalità  organizzata calabrese. Lo dice negli interrogatori dello scorso dicembre l’avvocato Vincenzo Minasi, glielo avrebbe riferito l’ex consigliere regionale pdl della Calabria Francesco Morelli, con lui arrestato il 30 novembre scorso per appoggio esterno al clan Lampada-Valle. Riferisce di “Nic”, Minasi, lo stesso citato al telefono da Morelli col boss Giulio Lampada il 21 gennaio 2010. «Morelli mi disse che aveva buone entrature nei servizi segreti e mi fece il nome di Nicola (testuale, ndr) Pollari», spiega l’avvocato. «Il fatto che io dica che Nic è Nicola Pollari ovviamente è una mia supposizione».
Inquietanti anche se «circostanze riferite da terzi», come sottolinea il gip Giuseppe Gennari in un passaggio dell’ordinanza di custodia cautelare eseguita ieri dalla squadra mobile di Milano, guidata da Alessandro Giuliano, e dal Gico della Gdf ai danni di cinque persone. Una di loro, l’imprenditore reggino Domenico Gattuso, attingeva a informazioni di prima mano tramite un non identificato colonnello del Ros di Reggio Calabria, «uno che poteva guardare il computer dei carabinieri, ma non dello Sco o della polizia». E le notizie riservate, tante e dettagliate, finivano ai boss attraverso lui, Morelli, Minasi, l’avvocato Mario Giglio e l’ex gip Vincenzo Giglio, già  arrestati il 30 novembre scorso nel primo pezzo d’inchiesta che sfiorò le frequentazioni pericolose del sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Nel frattempo, i Lampada facevano affari anche con la Finanza: oltre al maresciallo Luigi Mongelli, anche lui arrestato due mesi, c’era la sua intera squadra formata dai marescialli Michele Di Dio, Michele Noto e Luciano Russo a chiudere un occhio su quelle centinaia di macchinette mangiasoldi targate ‘ndrangheta, che non versavano un centesimo all’erario. Da 40mila a 60mila euro lo stipendio mensile dei quattro, «messi a disposizione» dei boss come li inchioda il gip, 720mila euro il valore degli appartamenti loro sequestrati.    MASSIMO PISA


MILANO – Le Fiamme Gialle e i boss, i servizi segreti e i colletti bianchi, le ombre sul Ros e i dubbi di Ilda Boccassini della Dda milanese, alla ricerca delle talpe. L’ultima inchiesta su ‘ndrangheta e istituzioni infedeli non scoperchia solo un (quasi) ordinario scenario di malaffare, ma proietta ombre micidiali. Perché finisce il nome di Niccolò Pollari, l’ex direttore del Sismi, nel calderone delle potenziali fonti della criminalità  organizzata calabrese. Lo dice negli interrogatori dello scorso dicembre l’avvocato Vincenzo Minasi, glielo avrebbe riferito l’ex consigliere regionale pdl della Calabria Francesco Morelli, con lui arrestato il 30 novembre scorso per appoggio esterno al clan Lampada-Valle. Riferisce di “Nic”, Minasi, lo stesso citato al telefono da Morelli col boss Giulio Lampada il 21 gennaio 2010. «Morelli mi disse che aveva buone entrature nei servizi segreti e mi fece il nome di Nicola (testuale, ndr) Pollari», spiega l’avvocato. «Il fatto che io dica che Nic è Nicola Pollari ovviamente è una mia supposizione».
Inquietanti anche se «circostanze riferite da terzi», come sottolinea il gip Giuseppe Gennari in un passaggio dell’ordinanza di custodia cautelare eseguita ieri dalla squadra mobile di Milano, guidata da Alessandro Giuliano, e dal Gico della Gdf ai danni di cinque persone. Una di loro, l’imprenditore reggino Domenico Gattuso, attingeva a informazioni di prima mano tramite un non identificato colonnello del Ros di Reggio Calabria, «uno che poteva guardare il computer dei carabinieri, ma non dello Sco o della polizia». E le notizie riservate, tante e dettagliate, finivano ai boss attraverso lui, Morelli, Minasi, l’avvocato Mario Giglio e l’ex gip Vincenzo Giglio, già  arrestati il 30 novembre scorso nel primo pezzo d’inchiesta che sfiorò le frequentazioni pericolose del sindaco di Roma, Gianni Alemanno. Nel frattempo, i Lampada facevano affari anche con la Finanza: oltre al maresciallo Luigi Mongelli, anche lui arrestato due mesi, c’era la sua intera squadra formata dai marescialli Michele Di Dio, Michele Noto e Luciano Russo a chiudere un occhio su quelle centinaia di macchinette mangiasoldi targate ‘ndrangheta, che non versavano un centesimo all’erario. Da 40mila a 60mila euro lo stipendio mensile dei quattro, «messi a disposizione» dei boss come li inchioda il gip, 720mila euro il valore degli appartamenti loro sequestrati.


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