SE LA CONFINDUSTRIA DIVENTA UN PESO PIUMA

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I media dedicano grande attenzione alla corsa per la Presidenza di Confindustria. Io, invece, non riesco a interessarmene. Non tanto per la caratura dei candidati: Bombassei e Squinzi sono imprenditori di successo per i quali nutro ammirazione. Ma non capisco l’importanza che viene attribuita all’associazione stessa e quindi alla figura del suo Presidente. Sono convinto che la capacità  di Confindustria di influenzare la politica economica del Paese, e quindi il suo sviluppo e le sue prospettive, sia ormai risibile. E che faccia poca differenza, per gli italiani, chi ne sia il Presidente. Scegliere tra Bombassei e Squinzi non significa schierarsi pro o contro l’articolo 18, o un certo rapporto tra imprese e politica, o una determinata visione del futuro dell’Italia. 
L’immagine di potere di Confindustria, quindi la visibilità  del suo Presidente, sono il retaggio di un passato in cui l’associazione era una vera forza politica, che incideva nelle scelte del Paese. E della forza politica aveva le caratteristiche: un gran numero di associati, partecipi e coinvolti; una capillare organizzazione territoriale; una grande macchina burocratica a Roma, ingenti risorse e una presenza cospicua nell’informazione. Caratteristiche necessarie a fronteggiare un sindacato confederale strutturato in modo analogo. Per questo, la concertazione con le “parti sociali” su qualsiasi norma in tema di economia è divenuta una prassi vincolante, quasi fosse un dettato costituzionale.
Era, questo, un bipolarismo funzionale in un’epoca in cui le grandezze macroeconomiche (inflazione, salari, tasso di cambio, ammontare del credito, tassi di interessi, deficit pubblico, debito, pressione fiscale) e la distribuzione del reddito (svalutazioni, indicizzazioni, pensioni, sussidi, tariffe e regolamentazione) erano decise entro i confini nazionali, c’erano barriere ai movimenti di capitale e la presenza diretta dello Stato nell’economia e nel sistema bancario era pervasiva. Ma con l’avvento dell’Euro, quasi tutto è deciso altrove; regole e struttura dei mercati sono perlopiù dettate da Direttive europee; banche, Borsa e finanza sono integrati in un mercato globale dei capitali. Se abbiamo riformato le pensioni in pochi giorni dopo anni di sterili confronti con le “parti sociali” è perché altrimenti lo Stato avrebbe rischiato il default. E a cosa vale sviscerare ogni minima dichiarazione di sindacati, imprenditori e politici quando, per capire quale sarà  l’evoluzione del mercato del lavoro, basterebbe leggere l’intervista di Draghi al Wall Street Journal: «Il modello sociale europeo è già  finito.»
Il ruolo di Confindustria sarà  sempre più confinato all’attività  di lobby tesa a condizionare l’allocazione tra le imprese di risorse pubbliche sempre più scarse; e una regolamentazione sempre più entro i binari decisi a Bruxelles. Inoltre, l’attività  di lobby è più efficace se fatta dai singoli interessi, più che da un unico soggetto che pretende di rappresentarli tutti: la liberalizzazione dei trasporti avvantaggia chi li usa, ma non chi li offre; i sussidi all’energia fanno bene a chi la produce, ma non chi la compra; e gli interessi di una multinazionale non coincidono con quelli dell’impresa locale. A Confindustria rimarrà  anche la negoziazione con il sindacato, che però interessa poco ai tanti associati che hanno meno addetti del necessario per la rappresentanza, e a quelli in grado di delocalizzare. Senza contare le divergenze interne sulla contrattazione a più livelli. 
Come i partiti tradizionali, Confindustria ha perso rappresentatività , potere e quindi identità . Discorso analogo per i sindacati. Quanti italiani si sentono veramente rappresentati dalle “parti sociali”? Certo, il Presidente di Confindustria gode ancora di una visibilità  da primo ministro. Da qui, l’interesse mediatico. Ma quando Mario Monti annuncia che le riforme si faranno, con o senza le “parti sociali”, non dice niente di rivoluzionario: sta solo rappresentando la realtà  a un Paese che si rifiuta di vederla.


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