Il Paese delle libertà  scopre l’Islam ostile

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L’onda velenosa degli attentati surriscalda la campagna per le presidenziali di aprile e inquina le reazioni politiche. Emozionalità  e strumentalità  sembrano prevalere sull’elaborazione di misure che dovrebbero essere più efficaci che elettorali. Si è cominciato con il proposito di perseguire la consultazione di siti online a contenuto fondamentalista e si è giunti al penoso tiramolla sul luogo di sepoltura di Mohamed Merah. L’Algeria ha rifiutato di accogliere la salma del terrorista. La prefettura di Tolosa ha deciso per la sepoltura in Francia, contro il parere del sindaco, con strascico d’indignazione e apprensione per ciò che potrà  accadere in futuro attorno al luogo prescelto. In questo clima s’inserisce il rincrescimento espresso dal governo per l’invito di Tariq Ramadan al congresso dell’Unione delle organizzazioni islamiche di Francia, istituzione sostenuta dal presidente Sarkozy con il proposito di garantire la rappresentatività  della religione musulmana e arginare la predicazione indiretta o clandestina.
Per quanto controverso e protagonista di ambigue provocazioni culturali, Ramadan è un intellettuale di forte notorietà  che ha dedicato molti studi al complesso rapporto fra Islam e Occidente: non meriterebbe l’ostracismo dal Paese che si considera patria dei diritti e rifugio di ogni forma di pensiero, compresa quello non propriamente democratico, di ex dittatori ed ex terroristi, come il nostro Cesare Battisti.
L’intellettuale nato in Svizzera viene di fatto accostato, e quindi confuso, con i quattro predicatori islamici ai quali i ministri degli Interni e degli Esteri hanno rifiutato l’ingresso in Francia, considerandoli personalità  note per appelli «alla violenza e all’odio». Ma è dubbia l’efficacia del divieto. I temi del congresso dei musulmani sono sempre gli stessi (integrazione, rispetto, dialogo, rappresentanza) e le assenze imposte e mediatizzate potrebbe creare più incomprensioni e risentimenti delle presenze. Non vanno dimenticate peraltro le condanne unanimi delle stragi di Tolosa espresse dagli imam francesi, le marce con rappresentati della comunità  ebraica.
C’è il rischio che la comunità  musulmana di Francia — circa cinque milioni di cittadini, francesi di seconda e terza generazione — avverta ostilità  e rancore. Un rapporto della commissione nazionale per i diritti dell’uomo (Cncdh) rileva l’aumento della diffidenza nei confronti dei musulmani e la percezione che costituiscano comunità  separate dalla società . Il 59% dei francesi pensa che ci siano troppi immigrati in Francia e il 70% che vengano nel Paese per approfittare del sistema di protezioni sociali. Dentro questi dati, s’intravede il virus delle semplificazioni, del pregiudizio, dello stereotipo sul potenziale terrorista. Virus sparso a piene mani dal Fronte nazionale di Marine Le Pen, i cui effetti sul corpo elettorale impongono continui aggiustamenti di rotta al presidente Sarkozy. «Si demonizza il Fronte, ma si normalizzano le sue tesi», aveva detto nei giorni scorsi proprio Tariq Ramadan, prendendosela con il ministro degli Interni, Guéant, l’uomo forte del governo. 
Al di là  delle polemiche e delle misure, la Francia stenta a riconoscere che il pericolo non viene da saltuari e isolati predicatori di passaggio, né dalla propaganda esterna, peraltro inarrestabile nell’epoca di Internet e delle antenne satellitari puntate a oriente dalle finestre delle periferie. Il pericolo è la deriva identitaria di una generazione che non si sente né francese né musulmana, ma semplicemente «contro». Una generazione che non ascolta alcun tipo di predica, si perde in territori senza legge, senza lavoro, senza l’ordine repubblicano e laico, questo sì tanto propagandato, anche a sproposito. Qualcuno non aspetta una predica per andare ad addestrarsi in Afghanistan o in Pakistan. Qualcuno si riconosce in terribili parole d’ordine, diviene un mostro. Ma per qualche compagno, un martire. Ed è più facile che sia l’imam del quartiere a fargli cambiare idea.


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