Giovanni Falcone, avversato da vivo e glorificato da morto

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Il titolo del libro fotografava una realtà : nel 1986 gli imputati detenuti erano 335, nel febbraio del ’91 erano 20. Ma a fine gennaio del ’92 la Cassazione aveva confermato l’impianto del maxiprocesso: Cosa nostra come organizzazione unitaria e la cupola che decide strategie e delitti. Una conferma della linea e del metodo elaborati da Falcone e dai magistrati del pool antimafia, avviato da Rocco Chinnici e formalizzato da Antonino Caponnetto. L’intervento di Falcone rispecchiava la sua soddisfazione per la sentenza della Cassazione: «È una sentenza che ha fissato dei punti cardine, che sicuramente si riverbereranno su tante altre vicende processuali… È stata confermata, nella maniera più autorevole, la bontà  di un’ipotesi investigativa, che ha trovato riscontri molto importanti». Nel mio saggio parlavo di «supplenza della magistratura» e Falcone chiariva: supplenza c’è stata «nel senso che ad un impegno straordinario della magistratura in un determinato periodo, non vi è stato un pari impegno da parte di altri organi statuali. Questa è una tesi che meriterebbe approfondimento e che sicuramente ha un fondamento di verità . Io ricordo ancora quella volta in cui un ministro dell’Interno, proprio qui a Palermo, ebbe a dirci che la mafia non era il problema prioritario dell’ordine pubblico in Italia». Nella mia replica dicevo che le sinergie che avevano generato il maxiprocesso si erano dissolte con lo sgretolamento del pool e che si era tornati a una magistratura mandata in avanscoperta con le altre istituzioni più preoccupate che interessate al suo lavoro. Il problema era l’impunità  dei mandanti dei delitti politico-mafiosi. E, ripensandoci, quel «voltare pagina», individuando e colpendo la «convergenza di interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica» di cui parlava l’ordinanza alla base del maxiprocesso, non poteva non essere considerato un progetto incompatibile con il sistema di potere. Alla fine dell’incontro ho chiesto a Falcone: «Ma è proprio necessaria la Superprocura ed è sicuro che il Superprocuratore sarai tu?». Falcone era certo: «Questa volta non possono dirmi di no». Questo è l’ultimo ricordo che ho di lui: amareggiato ma fiducioso. Ma le amarezze non erano finite e riguardavano proprio la Superprocura. Ricordo un titolo su l’Unità  del 12 marzo: Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché, in un articolo di Alessandro Pizzorusso. Il perché era esplicito: troppo legato a Martelli. Prima, per bocciare la sua nomina a Consigliere istruttore, lo si era accusato di protagonismo, ora si tirava fuori una presunta dipendenza dalla politica. Sono passati vent’anni dalla strage di Capaci e in questi anni Falcone, con Borsellino, è diventato il santo-patrono dell’Italia che vuole giustizia. Alle celebrazione degli ultimi anni partecipavano frotte di ministri del governo Berlusconi e ricordo che per non infastidire la Gelmini si è sequestrato uno striscione dei Cobas: «La mafia ringrazia lo stato per la distruzione della scuola pubblica». Quest’anno ci sono stati Napolitano e Monti, le navi della legalità  hanno portato ancora una volta a Palermo migliaia di ragazzi inneggianti a Giovanni e a Paolo, ma cosa sanno in realtà  di loro? Chi ricorda la via crucis che hanno dovuto percorrere fino all’ultima stazione, a Capaci e a via d’Amelio? L’Italia è un paese senza memoria o con una memoria programmata, che produce icone e cancella o sbiadisce la realtà . È successo per i fondatori dello Stato unitario, affratellati nelle celebrazioni dello scorso anno, succede per Falcone e Borsellino e per tutti coloro che la lotta alla mafia l’hanno fatta, pagando di persona, dai protagonisti delle lotte contadine ai nostri giorni. Sono ormai delle fotine di un memoriale rassicurante. Ma se si vuole andare oltre le liturgie ufficiali, bisogna recuperare per intera una storia che è fatta più di conflitti che di osanna.

 

*Direttore del centro di documentazione Giuseppe Impastato


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