Ombre russe sulla democrazia ateniese

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Anche gli euroscettici greci, probabilmente, hanno ormai capito che il futuro del loro Paese dipende in ultima analisi dal giudizio dei mercati e che il ritorno alla dracma non è una soluzione. Per sostituire una moneta internazionalmente apprezzata come l’euro non basta stampare dracme, fissare per decreto il valore di cambio della nuova moneta, ordinare agli istituti di credito di cambiare la denominazione dei conti correnti, pretendere che i greci portino in banca, per cambiarli, gli euro che hanno nelle loro tasche e nei loro materassi. Per realizzare questa gigantesca confisca occorre agire all’improvviso, chiudere le banche per evitare la corsa agli sportelli prima dell’entrata in vigore della riforma, chiudere i porti, gli aeroporti e i valichi di frontiera sino al completamento dell’operazione. E occorre dare per scontato, infine, che molti capitali greci, prima o dopo, saranno comunque finiti all’estero.
Non basterebbe, quindi, un’operazione finanziaria. Sarebbe necessaria un’operazione di polizia. E occorrerebbero verosimilmente altri interventi delle forze dell’ordine non appena i greci avranno constatato che la dracma, nelle loro tasche, non vale quasi nulla, che i debiti contratti dallo Stato sono ancora in euro, che il Paese non è più in grado d’importare tutto ciò di cui ha bisogno per assicurare il funzionamento delle proprie imprese e sopravvivere. Chi pensa che la dracma svalutata possa favorire le esportazioni greche dimentica che neppure il mercato unico europeo accetterebbe senza reagire una svalutazione competitiva.
È questo, probabilmente, il motivo per cui il «ritorno alla dracma» non sia materia di discussioni serie e ragionevoli. Ma resta pur sempre l’argomento preferito di formazioni nazionaliste come Alba Dorata e Greci Indipendenti. Il primo è un partito della destra radicale, aggressivo e xenofobo, che dichiara di volere difendere la povera gente dalla concorrenza dell’immigrazione clandestina e dà  la caccia all’immigrato nei mercati all’aperto delle città  greche. Il secondo, fondato nel febbraio 2012 da Panos Kammenos, un deputato uscito da Nuova Democrazia (il partito di Antonis Samaras, presidente del Consiglio dal giugno di quest’anno), ha conquistato 20 seggi nelle ultime elezioni. Alla linea adottata dal governo questi nemici della «troika» (Banca centrale europea, Commissione di Bruxelles, Fondo Monetario Internazionale) rispondono spesso che la Grecia ha un grande amico su cui potrà  sempre fare affidamento: la Russia di Vladimir Putin. Esiste ormai nel Paese un «partito russo» che può contare, tra l’altro, sulle simpatie della Chiesa ortodossa e di alcuni uomini d’affari fra cui un ricco «greco del Ponto», come vengono chiamati i greco-russi del mar Nero. Si chiama Ivan Savvidis, ha fatto la sua fortuna nell’industria del tabacco, è stato eletto alla Duma, è presidente della Federazione delle Comunità  greche di Russia ed è approdato a Salonicco dove avrebbe già  comperato una indebitata squadra di calcio.
La Russia, d’altro canto, è già  molto presente a Cipro. A un gruppo di giornalisti europei, nello scorso luglio, il presidente cipriota Demetris Christofias ha detto: «I russi sono nostri buoni amici. Vogliono occuparsi di noi», e ha aggiunto: «Possiamo benissimo associare l’aiuto russo a quello europeo, non è un problema». Per ricapitalizzare le sue banche Cipro ha bisogno di dieci miliardi e spera di averne cinque da Mosca a un basso tasso d’interesse. Il governo russo ha risposto prudentemente che è pronto a esaminare la richiesta, ma nell’ambito di una operazione concordata con l’Unione europea.
Christofias è comunista, ha studiato a Mosca negli anni dell’Unione Sovietica ed è ortodosso. Anche in Grecia, come a Cipro, il nazionalismo e l’ortodossia, eventualmente conditi con un pizzico di vecchio comunismo, potrebbero essere gli ingredienti di una politica russa nei Balcani. Per sostituire l’Europa, naturalmente, Mosca dovrebbe mettere sul tavolo della crisi greca una somma molto più importante di quella necessaria all’isola di Cipro. Ma la sua ombra, proiettata sulla Grecia, basta per ora ad alimentare il nazionalismo antieuropeo dei partiti populisti. Non è difficile immaginare, d’altro canto, che cosa accadrebbe se i partiti della coalizione di Samaras, travolti dalla crisi, lasciassero il campo ai loro oppositori. Il Paese cercherebbe altri partner e la Russia, in quelle circostanze, lo accoglierebbe fra le sue braccia. In una intervista con Paolo Valentino (Corriere del 26 maggio), Joschka Fischer (ministro degli Esteri nel governo del cancelliere Schrà¶der), ha detto che la Russia «è già  pronta e nessuno ne parla». Il partito del rigore, a Berlino o a Bruxelles, apprenderebbe forse con piacere che la Grecia non è più una responsabilità  dell’Ue. Ma dimenticherebbe che il Paese smetterebbe di appartenere alla sfera euro-atlantica, che il suo nazionalismo contagerebbe quello della Serbia e risveglierebbe quello della Turchia, che si riaprirebbero le questioni del Kosovo e dell’Epiro, che l’Unione europea e la Nato perderebbero il Mediterraneo orientale nel momento in cui il Levante è minacciato dalla crisi siriana, dagli ultimi sviluppi della questione palestinese e domani, forse, da una nuova crisi libanese. Il prodotto interno lordo della Grecia rappresenta soltanto il 3% di quello dell’Europa. Ma il suo pil geopolitico vale molto di più. È arrivato il momento in cui della politica greca dell’Unione europea devono occuparsi gli uomini di Stato, non i ragionieri.


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