Liberia, ritornano i rifugiati in un paese in bilico

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La chiusura del progetto ha trovato vasta eco presso i media internazionali, evidenziando il successo dell’iniziativa avviata dall’Agenzia Specializzata dell’Onu nel 2004, “un anno dopo la restituzione della pace in Liberia”, come ha annunciato la portavoce dell’Unhcr a Ginevra, Melissa Fleming. Un riconoscimento inoltre “alla Liberia e all’intera regione” secondo Sulaiman Momodu, responsabile dell’Alto Commissariato nel Paese dell’Africa occidentale.

Parole non retoriche. Nei 14 anni che hanno visto succedersi due guerre civili, ai 200mila morti si sono sommati gli oltre 800mila sfollati interni costretti alla fuga; circa 250mila di questi si sono riversati all’estero in cerca di rifugio, trascorrendo più di vent’anni in Costa d’Avorio, Ghana, Guinea, Mali, Nigeria, Sierra Leone e Gambia. Ad esempio il campo di Buduburam, a 44 Km da Accra (Ghana), dal 1990 è stato la casa di più di 35.000 rifugiati liberiani. Nell’estate 2010 l’Unhcr ha iniziato il suo smantellamento nell’ottica di promuovere e sostenere materialmente il rimpatrio per i rifugiati liberiani. Le cifre complessive del programma annoverano circa 155.560 liberiani che hanno fatto ritorno nelle loro case, incentivati anche dalla consegna di una piccola somma in denaro come primo aiuto per riavviare la propria esistenza nel Paese; e inoltre dall’assistenza della Commissione liberiana per il rimpatrio e la reintegrazione dei rifugiati (Liberia Refugee Repatriation and Resettlement Commission, LRRRC), specie per la ricerca di un impiego.

Al momento, paradossalmente, la Liberia accoglie quasi 67mila rifugiati ivoriani, in fuga dal Paese dopo le violenze seguite alle elezioni del 2010, per le quali l’ex presidente Laurent Gbagbo è sottoposto al giudizio della Corte Penale Internazionale. Una sorte che lo accomuna al suo corrispettivo liberiano, Charles Taylor, condannato il 26 aprile scorso dal Tribunale Speciale per la Sierra Leone, istituito all’Aia sotto l’egida dell’Onu, per 11 capi di imputazione a suo carico, tra cui crimini di guerra e crimini contro l’umanità . L’ex signore della guerra liberiano è stato di fatto riconosciuto responsabile di aver armato e fornito assistenza ai ribelli del Ruf (Fronte rivoluzionario unito) nella guerra civile in Sierra Leone (1991-2001), che usavano mutilare piedi e mani alle loro vittime, e di gravi crimini come omicidi, stupri di massa, saccheggi, riduzione in schiavitù, torture e arruolamento degli ormai tristemente noti bambini-soldato.

In sostanza, con la condanna dell’artefice di una delle pagine più sanguinose e brutali della recente storia africana e la facilitazione al rientro dei rifugiati in un’ottica di riconciliazione nazionale, con l’ausilio peraltro dalla missione Onu di sostegno al processo di pace (UNMIL, United Nations Mission in Liberia), la situazione in Liberia sembra indirizzata su binari che lasciano spazio alla speranza per il Paese. Questo non significa la fine di dubbi e timori, come dimostra la recente decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di prolungare l’embargo nei confronti della Liberia in base alla indicazioni del gruppo di esperti incaricato di verificare il processo di pace. Nella Risoluzione 2079 adottata il 12 dicembre all’unanimità , il Consiglio ha preso atto “con preoccupazione” della mancanza di progressi nell’attuazione delle misure finanziarie imposte già  nel 2004, in particolare in relazione al congelamento di tutti i beni dell’ex presidente Charles Taylor, dei suoi familiari e soci, per impedire loro di ostacolare il ripristino della pace in Liberia e nella regione. La richiesta di “fare ogni sforzo necessario per adempiere ai propri obblighi” si riferisce probabilmente all’impressionante e fatale intreccio di interessi legati allo sfruttamento minerario nel quale la Liberia è ampiamente coinvolta. Non è un caso che la cosiddetta guerra dei diamanti del film “Blood Diamond” (“Diamanti di sangue” in italiano) abbia come ambientazione la guerra civile in Sierra Leone, nei territori al confine con la Liberia. Ovvio dunque che sia alto il rischio che interessi strategici ed economici tornino a destabilizzare il Paese, come l’intera area dell’Africa occidentale.

Miriam Rossi


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