È arrivata a 800 la conta dei morti

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Quando l’ultimo tragico conteggio dei morti è ormai arrivato alle 800 vittime, le speranze che la conta maledetta si possa finalmente fermare continuano a diminuire.
Più si scava tra le macerie del palazzone imploso alla periferia di Dhaka, più escono cadaveri anche se ormai semi decomposti. Intanto, mentre le autorità  locali hanno ordinato la chiusura di 16 fabbriche di abbigliamento «pericolose» in seguito ai controlli, a due settimane dal crollo la vicenda scuote ancora un Paese attraversato in questi giorni da scioperi (da ieri quello generale organizzato dall’opposizione del Partito nazionalista) e da un’altra violenza, che rende il quadro sociale più infuocato. Infatti per le autorità , lunedi scorso, negli scontri tra polizia e manifestanti del gruppo radicale d’opposizione Hefajat-e Islam (che chiede una legge contro la blasfemia e la pena capitale per chi offende l’Islam), i morti sarebbero stati «solo 11» e non 2.500 come notizie incontrollate raccontavano.
La vicenda del palazzone alla periferia di Dacca che ogni giorno sforna nuove vittime resta dunque un grande tema carico di tensioni in un quadro di scontri violenti, non solo verbali, che precede le prossime elezioni che forse si terranno in dicembre e in cui la vicenda Rana Plaza non può, per forza di cose, essere estranea. Migliaia di lavoratori continuano infatti a protestare. La rabbia, prima per il crollo ora per i salari e il lavoro, è un elemento di tensione che non si spegne e che autorità  e padronato fanno fatica a governare.
Ieri il Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (Bgmea), l’associazione tessile nazionale di categoria, ha fatto sapere di voler iniziare la distribuzione di parte delle compensazioni ma la cosa anziché rasserenare gli animi si è trasformata in una nuova occasione di contestazione. A Savar, il distretto periferico della capitale in cui è crollato il Plaza, si erano infatti recate tantissime famiglie di lavoratori che si aspettavano pagamenti veloci e sostanziosi. Ma le cose non sono andate come volevano. I manifestanti hanno bloccato l’autostrada Dhaka-Aricha per alcune ore appena hanno saputo che sarebbe stato pagato un solo mese di salario, in molti casi nemmeno sufficiente a ripianare le spese mediche per le ferite riportate. La richiesta dei lavoratori era di averne almeno quattro. Poi le trattative con le autorità  hanno fatto interrompere il blocco stradale durato un paio d’ore su un’arteria trafficatissima mentre la Bgmea procedeva a trattative individuali per contrattare un forfait. Una situazione che promette nuove proteste, alimentate dai nuovi bilanci del numero delle vittime del crollo.
Tutto concorre a inasprire animi sempre più tesi: persino l’ennesima sentenza (la terza e, come le precedenti, probabilmente di condanna a morte) che un tribunale della capitale dovrebbe oggi rendere nota a carico dell’ex leader del partito islamista Jamaat-e-Islami, Muhammad Kamaruzzaman. Kamaruzzaman è accusato di crimini contro l’umanità  commessi nella guerra di liberazione dal Pakistan negli anni Settanta, quando era a capo di un gruppo paramilitare pro-pachistano – Al-Badr – nel conflitto che opponeva Islamab all’allora Pakistan orientale, oggi Bangladesh. Un processo che ha scatenato polemiche e manifestazioni che oggi potrebbero riattizzarsi e aggiungere benzina sul fuoco.
Lettera22


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