E anche nella Fortezza Germania i tassi d’interesse tornano a salire

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MILANO – «Quando un investitore è stanco di Londra (leggi: della sterlina), è stanco della vita (qui: della finanza)». E’ una semplice battuta, circolata ieri nell’altezzosa City, ma il riferimento è a qualcosa di puntuale e reale: un titolo «ultra–lungo», con scadenza tra 55 anni, è stato appena messo sul mercato dal governo britannico; e Londra – pur volendo vendere «solo» 5 miliardi di sterline di bond – ha raccolto quasi 13 miliardi di sterline di ordini (15 miliardi di euro).

Eppure, dietro l’indubbio «colpo grosso» del Regno Unito, si nasconde una tendenza meno positiva – breve o lunga che sia – per i Paesi che finora hanno approfittato di tassi rasoterra per finanziarsi. Sono i «vincitori assoluti di ieri», quelli del rating a tripla A o giù di lì: mentre il debito soffiava sulla tempesta mediterranea e faceva schizzare i rendimenti italiani e spagnoli, loro – dalla Gran Bretagna alla Germania, dalla Svizzera agli Stati Uniti – pagavano cedole minuscole (se non addirittura negative) per raccogliere fondi. Adesso, però, la musica sembra cambiata: i tassi, dopo essere scesi per tutti (finalmente, nei mesi scorsi, anche per l’Europa meridionale), stanno ora tornando a salire. Di nuovo per tutti, a Nord e a Sud. Così, per dirla come un telenovela latina molto apprezzata anche più a Settentrione, adesso «anche i ricchi piangono». E’ un pianto relativo, certo, ma pur sempre di lacrime si tratta, dopo le vacche incredibilmente grasse (a proposito di tassi, sia chiaro) degli anni scorsi.

Qualche esempio? La stessa Londra, nonostante ieri abbia furoreggiato con la sua emissione «extra large», ormai deve pagare un tasso del 2,6% per finanziarsi a 10 anni: quasi due mesi fa bastava un secco e tondo punto percentuale in meno. Stesso discorso e stessi numeri per gli Stati Uniti, dove – per la prima volta da oltre un anno – i rendimenti reali (al netto dell’inflazione) sono saliti sopra lo zero. Direzione rialzista anche nel cuore dell’Europa virtuosa: da inizio maggio i tassi dei Bund decennali tedeschi sono passati dall’1,1% all’1,8%; lunedì hanno toccato i massimi da oltre un anno, e qualche economista prevede un possibile ulteriore rialzo al 2,4% nei prossimi mesi. Perfino il Paese più sicuro e inossidabile per antonomasia – la Svizzera con il bilancio in attivo e i franchi in tasca – ha visto lievitare i rendimenti che deve offrire al mercato: raddoppiati in meno di 60 giorni, dallo 0,55% all’1,1%.

Ma se «i ricchi piangono», agli altri va peggio, sia come variazione sia come punto d’arrivo. Non solo i Btp italiani e i Bonos spagnoli devono pagare tre punti (e passa) percentuali in più dei cugini tedeschi. Ma anche: in queste settimane di lievitazione generale, i rendimenti di Roma e Madrid sono cresciuti più di quelli di Francoforte o Berna. Che si sono rivelate, ancora una volta, prime della classe tra le grandi capitali d’Europa: il drenaggio di liquidità annunciato da Washington e i problemi della Cina hanno fatto salire i tassi dei due Paesi centroeuropei meno di quanto sia successo anche in città virtuose come Parigi o Amsterdam.

E adesso? Una delle variabili più importanti sono le prossime mosse della Fed, la banca centrale americana. Che regolerà il drenaggio di liquidità in base alle necessità della propria economia: più crescerà, meno avrà bisogno di carburante monetario, con un effetto a catena sulla liquidità disponibile, anche in Europa e anche per Bund, Btp e Bonos. Ieri negli Usa sono usciti i nuovi dati sui prezzi delle case: in crescita e con il turbo. Così è più probabile una Fed sempre meno aggressiva. E un’Europa che dovrà contare di più su se stessa.

Giovanni Stringa


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