Lo Stato garantisca più credito, la crescita ripartirà

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Secondo: stanziare risorse, mantenendo fermo il 3% nel rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo. Terzo: sbloccare il credit crunch, senza appesantire i requisiti patrimoniali delle banche previste dall’accordo di Basilea.

Occorrono nuove idee, nuovi soggetti, nuovi strumenti, è il succo della conferenza stampa congiunta tenuta a Mosca il 20 luglio dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Viso e dal ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni. Ai due va aggiunto il terzo riferimento: Mario Draghi, presidente della Bce.

Del resto l’abolizione dell’Imu (o quel che sarà) e la cancellazione dell’aumento Iva al 22% non avranno effetti decisivi sull’economia reale. È una manovra che servirà (forse) a tenere in piedi il governo: tutti gli economisti ormai la valutano in questa chiave. Basta consultare analisi come quella di Prometeia, il centro studi di Bologna. Nel rapporto di previsione pubblicato la scorsa settimana è calcolato l’impatto che avrebbe avuto l’incremento di un punto, dal 21 al 22% dell’aliquota Iva che si applica su prodotti come elettrodomestici, capi di abbigliamento e altri manufatti: il governo rinuncerà a un gettito annuo di tre miliardi per evitare un calo dei consumi di appena lo 0,1% all’anno.

Quei tre miliardi, invece, farebbero molto comodo se venissero dirottati sul fronte delle misure per la crescita. Un esempio concreto? Nel perimetro Saccomanni-Visco-Draghi si sta lavorando al rilancio del Fondo di garanzia sul credito per le piccole e medie imprese gestito dal ministero dello Sviluppo economico, guidato da Flavio Zanonato. L’idea proviene dal tavolo dei dieci saggi convocato dal presidente Giorgio Napolitano subito dopo le elezioni. Il funzionamento del Fondo è un po’ contorto perché deve incrociare la normativa europea e la fitta regolamentazione ministeriale. Lo Stato garantisce una larga quota (dal 50 al 70%) dei prestiti concessi dalle banche alle aziende che non superano i 50 milioni di fatturato o la soglia di 250 dipendenti (criteri Ue per la definizione di piccole e medie imprese).

Il tetto massimo dell’importo garantito dalla mano pubblica è di 2,5 milioni, ma lo Stato accantona circa l’8% della somma coperta (su 2,5 sarebbero 200 mila euro). Questo è un passaggio cruciale perché le risorse stanziate vengono conteggiate direttamente nella voce debito pubblico, ma non in quella del deficit, dove rientrano solo le perdite seguite all’eventuale fallimento del prestito. Conviene fare i calcoli con le cifre reali. Nei primi sei mesi del 2013 il Fondo ha assistito 34.587 operazioni, di cui 10.163 nel Sud. Il monte prestiti ammonta a 4,8 miliardi, tutti erogati dalle banche con la copertura dello Stato su 2,8 miliardi. La tesoreria, però, ha effettivamente sborsato per gli accantonamenti non più di 230-240 milioni di euro e solo questa cifra andrà computata per il livello di indebitamento generale, mentre rientreranno nel calcolo del deficit pubblico solo le perdite sofferte, stimate intorno al 3-4% del garantito, quindi per restare al primo semestre 2013, tra gli 85 e i 110 milioni: niente a fronte di una leva finanziaria capace di far arrivare 4 miliardi all’economia reale.

Lo studio dei dati ha già spinto il governo a occuparsi del Fondo di garanzia. Nel cosiddetto «decreto del fare» sono previste misure per semplificare le procedure di accesso, alzare il tetto di garanzia dal 70 all’80% e allungare la durata del finanziamento oltre i 36 mesi.

Non basta. Confindustria, per esempio, chiede di allargare la platea delle imprese beneficiarie, modificando almeno uno dei due paletti (fatturato di 50 milioni, 250 dipendenti). Ma il punto cruciale è quello delle risorse. Al momento la dotazione utilizzabile per gli accantonamenti è pari a 900 milioni per il 2013 e 400 milioni per il 2014: totale 1,3 miliardi che potrebbero mobilitare almeno 17 miliardi di prestiti. Una somma più che sufficiente se continuasse l’agonia produttiva degli ultimi due-tre anni. La Banca d’Italia, però, si aspetta una svolta con potenzialità interessanti a fine anno. Insomma un’occasione da non lasciare sfuggire. Lo stop alla recessione sarà innescato dagli investimenti industriali, fermi da almeno due anni. Niente di travolgente: spese di manutenzione o sostituzione, ma qualcosa sarà. L’accesso al credito è lo strumento numero uno per accompagnare lo sforzo delle aziende. Ed ecco allora perché, è il ragionamento che rimbalza tra ministeri e Banca d’Italia, sarebbe fondamentale potenziare il Fondo di garanzia. Per ora il piano del governo fissa un traguardo di 4 miliardi, ma la dote potrebbe arrivare anche fino a 10 miliardi, liberando un volume di finanziamenti tra i 130 e i 150 miliardi, dieci volte più di quello previsto. L’equilibrio di bilancio dello Stato non sarebbe intaccato e neanche quello delle banche: i prestiti concessi con questa formula sfuggono ai vincoli patrimoniali fissati dalle regole di Basilea. Gli istituti di credito potrebbero accendere mutui per le imprese, senza dover accantonare altre riserve. Nè la Commissione europea, nè la Banca centrale avrebbero nulla da obiettare.

Giuseppe Sarcina


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