Strage di bambini con il gas nervino “Oltre mille morti” ma il regime nega

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GERUSALEMME — Una Treblinka di bambini e ragazzi sorpresi in strada da nuvole di gas nervino, boccheggianti come pesciolini fuor d’acqua. Hanno la schiuma alla bocca, qualcuno riesce a muovere appena le braccia e le mani, qualcun altro non respira già più: medici senza farmaci li accudiscono «con acqua e aceto», aspettando che muoiano allineati sul pavimento di un ospedale. Le immagini orribili che filtrano dalle fila dei ribelli, e rimbalzano nelle coscienze di tutto il mondo, urlano che ieri mattina nei sobborghi orientali di Damasco quelle armi sono state sganciate a quintali, trasformando la capitale siriana in una camera di sterminio a cielo aperto.
Ma la replica del governo di Bashar Al-Assad è altrettanto ferma: le accuse sono basate sul «nulla, vacue, categoricamente false e totalmente inventate», sono solo «una macchinazione pianificata in anticipo », una «sporca guerra mediatica » per costringere l’Occidente a intervenire a favore dei ribelli. Sono un modo per «distrarre gli ispettori dell’Onu» incaricati proprio in questi giorni di verificare se in due anni di guerra civile siano state effettivamente usate armi chimiche — la “linea rossa” fissata da Obama per separare il tollerabile dall’inaccettabile — o se sia solo propaganda rimpallata nel campo avversario.
Se si fosse potuta fare la cosa più logica, percorrere quei 12 chilometri che separano le camere a 5 stelle del Four Seasons, in cui alloggia la missione scientifica dell’Onu, e la periferia di Damasco, avremmo saputo in pochi minuti se ieri sia stato uno di quei giorni che il mondo vorrebbe dimenticare, il più grave sterminio con le armi chimiche da quando Saddam Hussein ordinò a suo cugino, Alì il Chimico, di massacrare migliaia di curdi in Iraq con Sarin e Iprite. Era il 1988, 25 anni fa. Invece, per tutto il giorno ieri si sono inseguite le immagini strazianti provenienti da tre quartieri nella periferia e le dichiarazioni ufficiali del regime, che di prima mattina aveva offerto la sua versione: tramite l’agenzia Sana, il governo siriano vantava un’importante offensiva con armi convenzionali, e l’uccisione di «dozzine di terroristi » islamici legati al fronte ribelle.
«Ecco, è una piccola terrorista, questa bimba?», dice un uomo mostrando un corpicino tra le vittime della strage, come gli altri apparentemente senza un graffio eppure esanime. Non c’è accordo su nulla, nemmeno sui numeri della tragedia: «centinaia di morti », dicono le organizzazioni umanitarie raccogliendo le testimonianze dei volontari; «più di mille morti», replicano i tanti rivoli del fronte ribelle fornendo cifre sempre diverse. Il problema è che le regole della logica e quelle della diplomazia corrono su binari divergenti. La missione dei delegati Onu, pianificata in anticipo, prevede che non possano neppure lasciare l’albergo se non per tre specifiche escursioni in zone in cui si sospetta siano state utilizzate armi chimiche, e due di queste zone non sono note per ragioni di sicurezza. Loro, i delegati, sono cauti: «Il numero delle vittime dichiarate è così elevato da suscitare sospetti. Certamente è una situazione su cui dovremmo indagare, se il Consiglio di sicurezza ci autorizzerà », dice il responsabile, lo scienziato svedese Ake Sellstrom.
Ci sono volute 14 ore per riuscire a convocare d’emergenza il Consiglio di sicurezza, raccogliendo nel frattempo la presa di posizione di Ue e Usa, entrambe allineate a chiedere «l’accesso immediato » per gli ispettori Onu sul luogo della strage. La Casa Bianca esprime «profonda preoccupazione » e «condanna con forza ogni uso delle armi chimiche». Una posizione su cui concorda anche la Lega Araba, mentre la Russia si limita a chiedere «un’inchiesta corretta, obiettiva e professionale» dando però assoluto credito alla tesi governativa: è stata una «provocazione premeditata».


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