Appalti, appartamenti e raccomandazioni ecco l’Italia dei favori

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NEI paesi del fu blocco sovietico la nomenklatura di partito godeva di privilegi castali: negozi riservati, case migliori, accesso facilitato a merci inaccessibili alla gente comune. Niente code, niente lunghe liste d’attesa grazie a una specie di salvacondotto perenne che permetteva ai capi di vivere in condizioni di extraterritorialità , come una specie di corpo diplomatico interno.

Noi siamo, almeno nominalmente, un Paese a economia di mercato. Ma leggendo l’intervista (ammirevole per la sincerità  ai limiti del candore) che l’ex ministro Lunardi ha concesso a questo giornale, siamo costretti a mettere a fuoco una realtà  molto poco sintonica con i principi che ispirano la libera competizione e le uguali condizioni di partenza tra i cittadini (principi proclamati a gran voce anche dal partito di Lunardi e di Scajola).
Si parla di ristrutturazioni offerte “a prezzo di costo” – cioè senza che l’impresa ne ricavi un solo euro – in cambio di un aiutino per acquistare terreni edificabili. Di funzionari pubblici che co-gestiscono, non si sa bene a che titolo, il sontuoso patrimonio immobiliare della Chiesa romana destinando gli alloggi agli amici e alle persone di riguardo. Di appartamenti concessi per oltre un anno in prova, senza pagare l’affitto (a meno che, citando l’ormai proverbiale battuta nonsense di Scajola, «qualcuno abbia pagato a mia insaputa»). Di pratiche edilizie risolte in Comune da “un amico”. Di favori dati e resi, di pastoie burocratiche by-passate, di occasioni d’oro riservate, di passaparola d’alto bordo che spalancano le porte di una vita agevolata. Si parla, soprattutto, del potere come moneta: un posto di comando vale, in sé, ben più di uno stipendio d’oro, se consente di ingrassare ingranaggi altrimenti rugginosi, di favorire una cordata che saprà  come ricambiare.
Dei molto ricchi si dice che possono girare senza portafogli. Le recenti vicende dimostrano che non solo i ricchi, anche i potenti possono dimenticarlo a casa: i loro “pagherò” non sono monetizzabili, sono il pacchetto di attenzioni e di interessamenti che sapranno mettere sul piatto quando ci sarà  l’occasione di farlo. E chi sia grato a chi non è dato sapere, perché la gratitudine, in quei paraggi e a quei livelli, è come l’uovo e la gallina.
L’ex ministro Lunardi (del quale, in uno dei disperati rigurgiti etici che ancora animano la politica, un paio di colleghi ieri chiedevano le dimissioni da parlamentare) si dice certo di poter spiegare tutto nei dettagli, carte alla mano, al magistrato di turno. Tiene a qualificarsi “persona corretta”, a distinguere tra la sua vicenda e quella di chi ha commesso reati. Glielo auguriamo, né augurarglielo ci costa più di tanto: perché non è questo il punto. Il punto, per la pubblica opinione o per quanto ne rimane, non sono i reati: quella è la patologia del sistema, è il bisturi che arriva quando non esistono rimedi meno invasivi. Il punto è la fisiologia del sistema: quella certezza del privilegio, quel convincimento di impunità , di mani libere, di circuito chiuso, che la grandinata di Tangentopoli ha appena scalfito, quasi a dimostrare che nessuna società  può illudersi di mondarsi, e tanto più riformarsi, per via giudiziaria: mentalità , costume, cultura, rapporti tra le classi, natura del patto sociale, da che mondo è mondo, cambiano radicalmente solo per via politica: le scorciatoie non sono date.
Alla luce degli ultimi atti e delle ultime parole spese attorno alla “cricca”, si capisce soprattutto questo: ciò che per i cittadini normali è una tribolata corsa a ostacoli (i permessi, le code, la ricerca di una casa, e poi intronarsi di lavoro e di fatica per pagare ogni cosa, per saldare ogni debito, per dovere ma anche per dignità ), per alcuni o parecchi degli uomini di governo e dei loro protetti è un tapis-roulant bene ammortizzato. Chi ci sale arriva prima e arriva meglio.
Il problema è capire quanto questa rete sia ramificata: e cioè fino a quali strati profondi della società  arrivi. Il sospetto, increscioso ma ragionevole, è che grandi porzioni di società  italiana siano già  contaminati (ma anche: tradizionalmente contaminati) dalla cultura dei favori. Che scendendo giù giù dai palazzi romani fino agli studi da geometra di provincia, agli uffici pubblici meridionali, ai capannoni lombardi, siano milioni gli italiani che sperano di salire su quel carro o almeno di inseguirlo da presso. Che la politica come assemblaggio delle clientele, come selezione di protettori locali da spedire a Roma, sia una ingente, potente porzione della politica in toto. Un’intervista come quella di Lunardi non si concede, con così schietta eloquenza, se non si sa di vivere in un paese che ringhia al potere quando ne è escluso, ma lo asseconda con compiacimento quando può coglierne le occasioni e incassarne i dividendi.
Nessun potere è immacolato, e gli scandali politici sono, in democrazia, quasi una ricorrenza rituale. Ma la Roma piaciona e compiaciona che sortisce dagli ultimi refoli di Palazzo, quella dove una mano lava l’altra e qualche giudice sgobbone si propone il titanico compito di scovare i reati a tutto tondo dentro la matassa border-line dei favoritismi e degli omaggi al potere, è la capitale di una democrazia opaca, incerta di se stessa, molto facile a confondere i diritti con i favori. Dove il libero mercato è solo un simulacro ipocrita, tal quale il socialismo in Urss. Eventuali dimissioni di Lunardi cambierebbero appena di una sfumatura un quadro davvero fosco.


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