Il disegno populista

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Ed è un pessimo senso. Che ha come obiettivo principale la riduzione del potere e dell’influenza delle élites tradizionali, cioè di quelle vaste e articolate formazioni di specialisti intellettualmente e professionalmente qualificati che costituiscono l’ossatura di uno Stato e che garantiscono l’interfaccia tra attività  di governo e dinamiche della società  civile; che sono indispensabili alle strutture d’ordine e alla dinamiche di progresso. Anche se non sono portatori della razionalità  stessa dello Stato – come voleva Hegel – , si tratta di ceti dal ruolo strategico, anche nel mondo d’oggi: ogni Paese li produce e li seleziona in modi diversi, secondo storia, caratteristiche e esigenze. In alcune realtà , come la Francia, si tratta prevalentemente di grandi burocrati; in altre, di militari; in altre ancora, come l’Italia, di professori e giuristi. Sono agglomerati istituzionali, o semi-istituzionali, che costituiscono una preziosa riserva di sapere e di potere (o almeno di competenze e di influenza) nella società  e nella politica; come una sorta di ossatura, di spina dorsale, del Paese, che, informalmente, ne assicura la stabilità , che ne cura e rinnova gli interessi permanenti. Un interlocutore indispensabile per la politica: non per chiedere privilegi, ma per darle aiuto, per assicurarle coerenza, per istituire con essa una dialettica il più possibile ricca e feconda. Una società  democratica, uno Stato liberale, una repubblica minimamente certa di sé, si articolano anche in questa complessità , in questa ricchezza. Contro la quale, invece, si scaglia – sistematicamente, coscientemente, coerentemente – la strategia della maggioranza: che infatti non è né liberale né democratica ma populista. E del populismo condivide il timore e il disprezzo per le élites, il risentimento contro il presunto privilegio dei “pochi” che non si presentano come parvenus ma che esibiscono un’appartenenza di ceto, comportamenti dettati non dalla smania di acquisizione o di protagonismo ma dall’ethos e dall’orgoglio professionale, dalla consapevolezza del merito, dalla certezza del dovere. Contro questi “poteri forti”, contro questi “radical chic”, contro questi “aristocratici da salotto”, viene scatenata la massa populista; a cui si additano i professori come indecenti nepotisti, e i magistrati come impuniti persecutori di innocenti; agli uni e agli altri – pur così diversi tra loro, quanto a funzione – deve essere fatta pagare la loro aria di superiorità , il sentore di privilegio che li accompagna. In realtà , quello che devono veramente scontare è di essere un contropotere rispetto al potere politico: un contropotere debole, che chi ha vinto le elezioni – e dunque è in possesso dell’unica legittimità  che, secondo il pensiero dominante, possa essere fatta valere – può spazzare via, o almeno intimidire, ridurre a più miti consigli, con una strategia di bastone (molto) e di carota (poca), volta a disarticolare i ceti, a costringere i singoli componenti alla trattativa. La Casta (vera) contro le Caste (presunte). Fare una riforma dell’Università  che ponga “al centro lo studente”, istituire la responsabilità  civile dei magistrati, sono – nelle condizioni di oggi – solo abili mosse demagogiche che hanno la finalità  reale di ridurre all’obbedienza élites riottose. Benché sia vero che nessuna di esse è immune da pecche, anche gravi, la lotta del potere politico non è contro queste, quanto piuttosto contro il ‘sistema’ stesso delle élites, i cui membri devono limitarsi a erogare anonimamente un “servizio” tecnico meramente funzionale. Del tutto in linea con questo intento è anche il finanziare la cultura rendendone evidente e sommamente impopolare la fonte – le accise sulla benzina – come per mettere il popolo, le masse, contro i lussi sofisticati e incomprensibili dei “pochi”. E perfino la lotta contro i metalmeccanici – quel che resta dell’aristocrazia operaia – è interpretabile, oltre che nelle sue connotazioni più ovvie, anche all’interno del medesimo disegno di riduzione tendenziale della società  a uno spazio liscio, disorganizzato, abitato da consumatori massificati, in cui emerge solo il potere plebiscitario di chi ha vinto le elezioni, più qualche folkloristico campanile a rappresentare le “radici” del popolo. Unica élite ammessa, a scopi meramente funzionali e, com’è giusto, rigorosamente individuali: gli avvocati difensori. Questo è un problema per l’oggi e per il domani, durante Berlusconi e dopo Berlusconi: qualcuno, un po’ lungimirante (se c’è), dovrà  pure cominciare anche a pensare in termini di ricostituzione delle élites, cioè di saperi e competenze che a partire da una specifica professionalità  sappiano costituire l’ossatura generale del Paese. E intanto, per favore, coloro che stanno realizzando questa Italia invertebrata, almeno non si definiscano liberali.


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