La ressa per gli aiuti «Sono caduti a grappoli»

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LAMPEDUSA — Se lo ricorderanno come il naufragio dei dannati che per non morire s’aggrappavano a chi sapeva nuotare, a chi s’agitava per raggiungere un salvagente o una cima e, invece, veniva tirato giù a fondo da braccia che a tenaglia afferravano lembi di camicia, scarpe, jeans. Una lotta per sopravvivere. Una lotta di cui restano graffi e tumefazioni sui corpi di chi è riuscito a riemergere, lasciando tra i flutti corpi gonfi d’acqua. La sopravvivenza affidata ad uno strappo, pur se sganciarsi equivaleva a decidere il destino di chi affogava. Una lotta vinta dai giovani e dai forti, persa da quasi 250 migranti in totale, da almeno cinquanta donne e da dieci, forse venti bambini, tutti inghiottiti dalle onde di un mare forza 6. Un bilancio amaro per chi da due motovedette della Capitaneria di porto giunte a 39 miglia a Sud di Lampedusa ha assistito impotente allo scempio dell’ennesimo barcone in balia di un Mediterraneo diventato una tomba. Una carretta da 13 metri appena, stipata in ogni angolo da 300 somali, eritrei, nigeriani, cittadini del Bangladesh, della Costa d’Avorio, del Ciad e del Sudan ammassati l’uno all’altro. Tutti terrorizzati dall’avaria al motore dopo due notti di navigazione. Sgomenti per l’acqua imbarcata via via, per la rotta perduta dopo la partenza dalla Libia e per l’assenza di aiuti dopo l’allarme scattato con un telefonino satellitare. Un Sos rimbalzato su Malta e sottovalutato per troppe ore. Finché da Lampedusa non sono salpate le CP 301 e 302, come chiamano le motovedette giunte sul «bersaglio» un quarto d’ora dopo le 4, quando le loro luci hanno riacceso la speranza di quel carico umano a lungo ignorato. Il panico del possibile naufragio, l’euforia alla vista dei soccorritori, l’errore di spingersi alzandosi in piedi, la calca per guadagnare un centimetro sono tutti elementi che debbono aver pesato per squilibrare la barca. Ma come dirà  un combattente del Movimento di liberazione del Sudan, Abdoul Karim, un omone di 46 anni, anche lui in fuga da guerre e miserie, «il danno maggiore deve averlo fatto il capitano di questo barcone» . Un libico che adesso si cerca e non si trova fra i sopravvissuti. «Un trafficante che ha spento il motore per non farsi riconoscere dagli equipaggi delle motovedette» . Una manovra errata perché la carretta che già  imbarcava acqua si è ritrovata ad ondeggiare schiaffeggiata dai flutti, senza alcun governo, oscillando come un’altalena impazzita, in 300 spinti prima sulla fiancata destra affondata giù e, un attimo dopo, ribaltati verso sinistra. Così Domenico Sorrenti e Maurizio Scozzari ai comandi della «301» hanno visto letteralmente volare centinaia di persone in acqua: «A grappoli, uomini, donne e bambini…» . Un inferno. «Nooo. Calma. Seduti» , urlavano ancora invano Pietro Alaimo e Roberto Boatta dalla «302» . Grida perdute in un’alba mai nata per chi annaspava disperato, trascinato dal mare furioso, sparendo giù per riemergere pochi minuti dopo senza vita, il corpo bocconi. Come è accaduto con tanti bambini. Anche con il bebè di Ebbi, un libico, papà  a 19 anni, distrutto perché non ce l’ha fatta a salvare il suo fagotto stretto prima fra le mani, poi con un braccio per poter nuotare, nell’impossibilità  di fargli tenere il capo su, l’acqua inghiottita, vinto dallo schiaffo di un’onda più forte. Pena e tragedia di un evento sottovalutato da un apparato pomposamente chiamato «Rescue Coordination Centre» , senza che nessuno si sia allarmato in tempo per una barca che al massimo avrebbe potuto portare 40 persone a bordo. Fino a qualche settimana fa sarebbe bastato per fare attivare immediatamente una catena di allarme internazionale, seppure Malta sia stata sempre restia a intervenire perfino nelle sue acque. Ma deve essere accaduto qualcosa nella catena di comando, se l’asticella dell’umanità  nei parametri delle camere di regia, nei protocolli civili e militari sembra di colpo essersi abbassata.


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