Noi, insegnanti sotto esame

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Nell’ultimo decennio l’insegnante è diventato il bersaglio di una coerente operazione di demolizione del riconoscimento sociale che lo ha accompagnato a lungo nel secolo scorso: accusato di esercitare un part-time di fatto; di fare il doppiolavoro attraverso la libera professione; di evadere (l’insegnante!) le tasse con le ripetizioni. E colpito anche in ciò che in Italia, purtroppo, garantisce sopra ogni cosa il prestigio sociale: il reddito, mortificato nei penosissimi “gradoni” e in regresso vertiginoso rispetto a vent’anni fa. E ancora, nel suo ruolo di grande inculcatore, oggi infine contrapposto frontalmente alle famiglia. Ma si può lavorare così, sotto assedio? Adoperarsi sistematicamente per fare saltare l’alleanza fra il docente, la società  e la famiglia è insensato. Vuol dire, paradossalmente, enfatizzare il suo ruolo di solitario artefice della cultura, dall’altro, implicitamente, isolarlo sotto la lente di un’osservazione sociale e politica minuta, moltiplicata, asfissiante. Uno sguardo che non è complice e collaborativo, ma indagatore e giudice. Succede che quelli che hanno paura dei professori e dei maestri non riescono a immaginarli diversi da se stessi e quindi li vedono al servizio di un’ideologia che immaginano compattamente opposta e ostile, diversa ma nello stesso modo illiberale, li percepiscono militanti a oltranza, comunque nemici, come loro si sentono tristemente nemici. Non è così e non lo sanno solo gli insegnanti ma anche le famiglie, per ora. Chi ha paura degli insegnanti non sa cosa succede davvero a scuola. E cioè che le idee sono meravigliosamente differenti e “tante”, portate dai ragazzi che arrivano in classe con i volantini sulle foibe o sulla Shoah, consegnati la mattina da qualcuno, sulla strada di scuola, e chiedono se quel che è scritto è vero, e portano gli articoli di giornale e le discussioni fatte in famiglia, vogliono capire se è vero che l’Unità  d’Italia è una buona cosa, e parlano e si confrontano. E ancora: tutto questo sta dentro a una cultura che è immensamente più larga della sua connotazione politica: è capacità  di dirsi, di riconoscerci diversi, di essere creativi, di capire e non giudicare, di difenderci dagli abusi, di non essere schiavi della banalità  e del vuoto dei giorni. La scuola come laboratorio di differenze anche di pensiero è oggi ciò che permette di disinnescare la guerra delle contrapposizioni che paralizza il vivere civile. Questa cultura vive della libertà  di parola: si deve poter dire e leggere tutto anche e soprattutto a scuola, perché la verità  non è una frase scritta su un libro, ma un processo continuo di ricerca e di aggiornamento paziente fatto insieme anche a chi, e cioè gli studenti, più liberi di noi, ci regala finalmente lo sguardo nuovo sui fatti. E ci si trova, e sarebbe incontro interessante da raccontare, a difendere in qualità  di responsabile della biblioteca scolastica, la presenza sugli scaffali di un libro molto contestato da alcuni nostri studenti: Il libro nero del comunismo. I libri vanno letti e discussi, non rimossi, abbiamo risposto. Si comincia con il bruciare i libri, abbiamo raccontato, e si arriva agli uomini. E il libro è ancora lì. Pensiamoci davvero: si può far cultura nella posizione di chi è sotto esame per un libro adottato, per una parola detta? Chi ha paura della libertà  della cultura ha paura della libertà . (L’autrice è un insegnante e ha scritto La vita accanto, Einaudi Stile libero)


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