Un rifugio per l’uomo che piangeva. Strade riaperte e 70 mila nuove case

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ONAGAWA — Il vecchio Yoshikatsu Hiratsuka torna nel suo rifugio quando ormai comincia a farsi buio. Il centro sfollati di Onagawa è un crocevia di destini. Lui, 66 anni, arriva stremato, avvolto in un giaccone tre volte più grande della sua taglia, sporco di fango e inzuppato di pioggia. «Accomodatevi» , e offre un pezzetto di tappeto. Sembra un altro. Niente baffi e molti anni di più dell’uomo che il mondo ha visto in una fotografia diventata simbolo della catastrofe giapponese: lui che piange disperato e in ginocchio, sotto la neve, davanti alle macerie della sua casa. «In effetti non sono più l’uomo di quel giorno — dice — perché nessuno può essere più lo stesso dopo una sventura così grande» . Sua moglie Iroko, 61 anni, e sua madre Minori, 93, le ha trovate proprio lui, morte, incastrate sotto un albero decine e decine di metri più in là  dei resti irriconoscibili di casa sua. «Ma mio figlio Masaru lo cerco ancora— piange Yoshikatsu— lo cerco senza sosta da un mese e anche oggi è andata male» . Ogni giorno appena spunta il sole «il vecchio» , come lo chiamano qui al rifugio, prende la via dell’oceano ed esplora un pezzo di macerie davanti alla costa. Masaru, 38 anni, era al mare, quel pomeriggio. «Possibile che sia svanito?» . Dopo tanto cercare, a volte anche di notte, con la pila, Yoshikatsu ha trovato l’orologio di suo figlio, «l’ho raccolto dal fango, funzionava. È un buon segno» , interpreta lui senza crederci. «Lo so che è morto si corregge— ma che male c’è a sperare ancora?» . Trentuno giorni dopo il disastro, la ricerca dei dispersi è una delle grandi difficoltà  per il Giappone orientale sfregiato da terremoto e maremoto dell’ 11 marzo. Le cifre, aggiornate a ieri, dicono che i morti sono 12.985 e che mancano all’appello 14.809 persone, nonostante l’incessante sforzo di migliaia di uomini. Di tutti i dispersi più di un migliaio sono nella «zona rossa» di Fukushima, cioè nei venti chilometri abbandonati attorno alla centrale atomica, dove ancora oggi i sei reattori sono tutt’altro che sotto controllo. I morti della fascia proibita di Fukushima sono sicuramente contaminati da un livello alto di radiazioni quindi recuperarli, ammesso che l’onda nera dello tsunami non li abbia trascinati al largo, vuol dire avere un problema in più: decontaminarli prima dell’identificazione. «Qui a Onagawa le radiazioni non sono arrivate» è convinto Yoshikatsu. «E poi, io ho perso tutto, che mi importa di contaminarmi? Da queste parti non c’è tempo per pensare a Fukushima come fa il mondo intero. Tutti a guardare quella benedetta centrale…. e intanto ecco— la mano punta una distesa infinita di rovine— è più o meno tutto come un mese fa» . L’emergenza nucleare ha tolto il palcoscenico alla devastazione dello tsunami e con i riflettori puntati sui reattori non si vede lo spettacolo agghiacciante della piana di Onagawa. Lungo la costa nord-est del Giappone il motore della vita riparte a fatica, anche se è tornata la corrente elettrica ormai ovunque, anche se le strade principali sono percorribili, anche se all’aeroporto distrutto di Sendai si lavora per riaprire i collegamenti entro i prossimi trenta giorni e anche se il mondo ha applaudito all’immagine di una strada riparata in una settimana. Ma nei villaggi rasi al suolo da terremoto, acqua e fango, le differenze visibili fra l’ 11 marzo e l’ 11 aprile sono poche. «Delle volte cammino fra le macerie e mi sembra che anche loro chiedano aiuto— dice Yoshikatsu —. Mi sembra che mi guardino mentre passo, come se non avessero pace» . Case e palazzi sventrati hanno un’aria spettrale. La domanda è: dove finirà  quest’enorme massa informe di ex-vita mescolata, schiacciata, accartocciata tutta assieme? Sono fra i 25 e i 30 milioni di tonnellate: centinaia di migliaia di case, imbarcazioni, piante, auto, macchinari industriali, pezzi di strade, ponti, fognature, fili elettrici, camion, oggetti della vita quotidiana di almeno 400 mila persone… Il governo per ora non ha soluzioni. Si potrebbe accumulare tutto in un solo posto e coprirlo, facendone un luogo simbolo del Paese, oppure cercare di recuperare e riciclare quello che si può affidando a ciascun comune il compito di trovare come sbarazzarsi del resto. Sono in programma riunioni proprio questa settimana per decidere il da farsi e per adesso una cosa è certa: sarà  un’operazione lunga, lunghissima. Potrebbero volerci anni. «Chissà  se farò in tempo a rivedere la mia Onagawa bella com’era prima» si chiede Yoshikatsu. Lui non è fra chi vuole scappare, «qui sono nato e cresciuto, qui voglio morire» annuncia. «Sarei felice di avere anch’io un alloggio provvisorio» . Dopo le prime 36 «case temporanee» costruite a Rikuzentakada, nella prefettura di Miyagi, il governo ne ha programmate altre 70 mila da tirare su entro un mese lungo tutta la fascia costiera del nord-est. E a Tokyo hanno fatto due conti anche sui soldi che serviranno per rimettere in piedi infrastrutture, industrie, scuole, e una vita più o meno normale: si può arrivare fino a 205 miliardi di euro. Yoshikatsu dice che non pretende soldi, gli basta la casa provvisoria e un pezzetto di terra per coltivare i fiori che sono la sua passione. C’erano le gemme, prima che l’onda nera spazzasse via tutto, «adesso non ne ho nemmeno uno da portare sulla tomba di mia moglie» dice, «non ho neanche una rosa da offrire all’Oceano perché la porti a mio figlio, dovunque si trovi» .


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