Chi urla alla violenza

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Fortunatamente, la penosa conta di chi è più estremista e malvagio è rimasta al palo, perché un paio di signori di sinistra inseguiti e malmenati da alcuni signori di destra non hanno ritenuto di farne un caso politico (oppure sono stati ben consigliati in tale senso) e si sono limitati a sporgere denuncia come si fa per le liti di viabilità . Non riceveranno, dunque, la visita di solidarietà  di Silvio Berlusconi, che ieri si è recato in ospedale, in favore di telecamere, per rendere omaggio alla signora spintonata promossa, suo malgrado, a ennesima vittima del comunismo.
La violenza politica, in questo Paese, non è un argomento sul quale esprimersi con leggerezza. “Brigate Pisapia” non è nemmeno un insulto: è – appunto – un uso leggero e cialtrone di una memoria dolorosa, e drammaticamente luttuosa. Centinaia di caduti, stragi nere, esecuzioni brigatiste, pestaggi mortali, delitti di branco, sparatorie, incendi di abitazioni e di locali pubblici: questo (anche questo) è il passato di una democrazia giovane e ancora fragile. E proprio per questo, proprio per l’incommensurabile distanza tra una tragedia che stravolse un paese e una deprecabile lite di mercato, suonano sconce le odierne speculazioni politiche attorno a una campagna elettorale che, a dispetto dei toni incendiari, non ha accettato, almeno fino adesso, di trasformarsi in pagliaio. Dopo la sconfitta militare del terrorismo rosso e nero, la violenza politica è ridotta a minutissime frange fanatiche che languono alle due estreme, e non se la passa bene neppure sulla scena mediatica, dalla quale è decisamente sfrattata da altre emergenze. La macroscopica violenza delle mafie, ad esempio, che ha fatto e continua a fare, in Italia, decine di migliaia di morti. La violenza da stadio, che impegna le forze dell’ordine, per quantità  e qualità , ben più frontalmente, e ha fatto, negli ultimi anni, molti più danni e più vittime dell’odio politico. O le recenti aggressioni omofobe (decine nella sola Roma) che esprimono una virulenza ideologica più sciaguratamente “moderna” rispetto a ciò che resta del decrepito estremismo comunista e fascista. 
Perché, dunque, promuovere miseri episodi di intolleranza di strada al rango di remake degli anni di piombo? Perché correre il rischio di ridare centralità , visibilità , importanza ai pochi fanatici che vanno in cerca di uno spazio perduto, di una rappresentanza negata? La risposta è – purtroppo – ovvia: perché ingigantire la pericolosità , l’alienità  del nemico, è uno strumento di propaganda di qualche efficacia presso i settori meno provveduti e difesi dell’elettorato. Ai quali, evidentemente, è costretta a rivolgersi la destra milanese una volta resasi conto che i cittadini più informati, e più partecipi della vita civile, non abboccano a quell’amo infetto e da una competizione elettorale si attendono tutt’altra dialettica, tutt’altra materia politica.
Impressionante, in questo senso, la forbice del voto tra i milanesi laureati, tra i quali gli elettori di Pisapia, al primo turno, sono stati il doppio di quelli della Moratti. Impressionante anche la Caporetto morattiana e berlusconiana su Internet (e tra i ventenni), terreno minato sul quale ad ogni sortita sguaiata contro l’estremista Pisapia corrisponde una beffarda raffica di messaggi che ne fanno la parodia. Il tormentone satirico sulle nefandezze attribuibili a Pisapia (dal terremoto del Giappone all’accusa, davvero terribile, di essere il parrucchiere di Berlusconi) è stata, fin qui, la risposta più “realistica” alla campagna fantasmatica del centrodestra milanese, nel senso che ne fornisce la chiave, e la smaschera. Tanto che, leggendo sull’edizione online del Giornale l’intervento di un lettore che si dice terrorizzato dall’incombere dei comunisti su Milano, e invita il quotidiano a “fare un’inchiesta per approfondire i rapporti di Pisapia con Mosca, Pechino e l’Avana”, non si riesce a capire se sia paranoia autentica o, più probabilmente, una efficace parodia della paranoia.
Quanto a Pisapia, invita, in caso di tafferugli, provocazioni, situazioni tese, a “porgere l’altra guancia”, pur sapendo che di guance, in questi giorni a Milano, ce ne vorrebbero almeno tre.


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