Clima: tecnocrazie o neotopie
Lo scorso ottobre la Convenzione Onu sulla biodiversità ha adottato una moratoria sugli esperimenti di geoingegneria. Ma è una vittoria fragile perché i geostregoni sono potenti. In questi giorni l’Assemblea generale dell’Onu ha tenuto un dialogo interattivo a New York per promuovere un «approccio olistico allo sviluppo in armonia con la natura», sulla scia della risoluzione 65/164 adottata per iniziativa della Bolivia. Ma la prossima conferenza Onu sull’ambiente, nel giugno 2012 a Rio de Janeiro, rischia di essere dirottata da interessi industriali che perseguono specifiche soluzioni tecnologiche e di mercato, nel nome della Green Economy.
Altro segnali preoccupanti: fra due mesi l’Ipcc (l’organismo scientifico istituito dall’Onu sul clima) terrà a Lima, in Perù, un incontro di esperti proprio sulla geoingegneria; la società civile ne è esclusa.
Va poi avanti con il suo lavoro la Convenzione e Protocollo di Londra sul dumping oceanico, che ha stilato linee guida per la fertilizzazione degli oceani sin dal 2008. E un neonato consorzio di università non vede l’ora di aggirare la moratoria delle Nazioni unite sugli esperimenti usando il pretesto della “ricerca scientifica” (come si fa per ammazzare le balene).
Però, la geoingegneria, insieme al commercio dei diritti di emissione, alle compensazioni, all’energia nucleare sovvenzionata, agli agro carburanti, al “consumismo verde” e alla green economy sono false soluzioni, che mercificano le risorse naturali. Lo illustra il recente libro Toward Climate Justice – pubblicato dalla norvegese Communalism edizioni – scritto dall’attivista per la giustizia climatica Brian Tokar. Il testo, ispirato da Murray Bookchin (uno dei padri dell’ecologia sociale), ricorda che il capitalismo tende a massimizzare i profitti, non l’efficienza. Il “capitalismo del carbonio” non risolverà nulla, anche se c’è una certa spinta verso il capitalismo cosiddetto verde da parte di grandi organizzazioni non profit.
Ma l’alternativa c’è: emerge un nuovo movimento che si focalizza sulle implicazioni di giustizia sociale nella crisi climatica globale. Esso mobilita in primo luogo chi è più colpito dalla crisi stessa (si pensi al grande attivismo dei contadini poveri e delle comunità del Sud del mondo), e si intreccia soprattutto negli Stati Uniti agli sforzi contro la guerra, «il modo più grottesco di sprecare energia». A questi soggetti il compito di diventare un nuovo movimento ecologico globale che definisca le linee di una società ecologica e lotti per attuarla. Gli ostacoli sono di natura politica, economica e sociale, perché sul lato tecnologico, anche senza stregonerie e geoingegnerie, è possibile ridurre del 60-80% i consumi di energia e sostituire i combustibili fossili.
Il riscaldamento globale del clima, vera emergenza, può delineare un futuro di miseria per tutti salvo i più abbienti, oppure ci può obbligare a immaginare comunità radicalmente trasformate e capaci di rimodellarsi il futuro, affermando il minimo sindacale: le comunità sono responsabili del soddisfacimento dei bisogni essenziali dei loro membri. Una neotopia che farebbe della spada di Damocle climatica una leva di Archimede per cambiare.
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