Con quel che butta il mondo più ricco si nutre mezza africa

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Non è che voglia fare il classico predicozzo da genitore che ripete ai figli «mangia, tu che sei fortunato, perché i bambini in Africa muoiono di fame», ma direi che l’immagine della donna è più che sufficiente di fronte al dato che nel mondo si spreca un terzo della produzione totale di cibo.

Equivale a dire 1,3 miliardi di tonnellate annue: è una cifra che fa rabbrividire. La ricerca del SIK (istituto svedese per il cibo) per conto della FAO analizza su scala globale e con un buon grado di approfondimento il fenomeno dello spreco alimentare. Qualcosa di cui sentiamo spesso parlare – in Italia grazie al lavoro di gente come Andrea Segré e Last-minute Market o del Banco Alimentare e di Slow Food – ma a cui forse mai diamo il giusto peso. Dai dati emerge che lo spreco avviene ovunque, ma soprattutto che è clamorosamente strutturale, perché una gran parte si verifica nelle fasi precedenti il consumo, ovvero la raccolta, il trasporto, la trasformazione, la distribuzione. Almeno in questo siamo molto simili sia nel Nord sia nel Sud del mondo: perché il sistema produttivo industriale spreca per l’appunto “quantità  industriali”. Lo fa per com’è congeniato, perché non dà  giusto valore al cibo: è una merce e conta soltanto il suo prezzo. Nel Paesi più poveri sono ancora più svantaggiati perché i mezzi e le infrastrutture di trasporto e conservazione non sono efficienti come quelle dei Paesi ricchi, ma noi, per non farci mancare niente, vinciamo comunque a mani basse grazie anche alla capacità  che abbiamo di buttare nella spazzatura di casa i nostri alimenti. I consumatori d’Europa, Nord America e Asia industrializzata sono dei veri campioni: riusciamo a sprecare direttamente nelle nostre case 222 milioni di tonnellate all’anno, che sono quasi equivalenti (230 milioni di tonnellate) alla produzione alimentare netta di tutta l’Africa Sub-sahariana.
Per questo m’innervosisco quando sento dire che bisogna aumentare la produzione di cibo nel mondo. È un refrain assordante. Lo dice la FAO stessa, ma lo dicono anche quelli che vendono sementi OGM o gli Stati ricchi già  ben abituati a produrre eccedenze iper-sovvenzionate. Lo pensano anche molti agricoltori occidentali, i quali credono che aumentando la produzione possano aumentare i anche miseri guadagni che stanno realizzando oggi, in tempi di crisi eccezionale per tutti i settori agricoli. Ma far crescere ulteriormente la quantità  del cibo significa spingere ancora più in là  le monocolture e gli allevamenti intensivi, un agro-alimentare molto industrializzato e poco sostenibile, che se ha il difetto di fare male all’ambiente non brilla nemmeno per scopi umanitari. Parliamo piuttosto di qualità , di economie locali, di metodi di produzione, di nuova agricoltura, d’infrastrutture e sostegno alle agricolture dei Paesi poveri. I dati sullo spreco e le perdite alimentari non fanno altro che confermare che gli squilibri del mondo dipendono prima di tutto dall’attuale sistema globale di produzione-distribuzione, che tratta il cibo come una merce qualsiasi e non come fonte di vita. Conosciamo bene i fenomeni del dumping sulle derrate agricole sotto forma di aiuti umanitari o le speculazioni finanziarie sul cibo. La ricerca conferma che se incrementassimo la produzione senza cambiare sistema, le perdite alimentari aumenterebbero in maniera proporzionale, e non avremmo risolto niente. Anzi crescerebbe lo sfruttamento della terra rendendola sempre più sterile cercando nella chimica un inutile rimedio perché oltre ad aggravare il problema è fonte d’inquinamento. Le perdite sono ingenti per qualsiasi tipo di cibo: i pesci che i grandi pescherecci gettano in mare prima di arrivare in porto perché avrebbero mercato solo a livello locale, i vegetali scartati perché non conformi per immagine e taglia agli standard della grande distribuzione, la roba scaduta sugli scaffali dei supermercati. 
Il fatto è che in filiere corte queste perdite e sprechi potrebbero essere ridotti in maniera importante: dobbiamo tornare a economie alimentari locali anche per questo motivo. Il sistema globale del cibo è come un vecchio acquedotto che perde da tutte le parti: possiamo impegnarci singolarmente a chiudere l’acqua mentre ci laviamo i denti, ma l’acquedotto continuerà  a perdere finché non cambieranno i tubi. O finché non ci sarà  una rete di tanti piccoli ed efficienti sistemi di produzione/distribuzione sparsi sul territorio. Ma fare tutto ciò in qualche modo significherebbe anche ridistribuire dei profitti. Lo spreco sarà  sempre tollerabile per chi realizza comunque grandi guadagni, ma non è tollerabile di fronte a un miliardo di persone che muoiono di fame.


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