Il modello Manchester

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Perché il vero problema con il quale gli industriali devono fare i conti non è tanto e solo «la distrazione del premier» , che non ama passare le serate di Arcore consultando gli atlanti di politica industriale, ma il fatto che siamo entrati nell’epoca dello «zero budget» , dell’impossibilità  dichiarata dell’esecutivo di spendere. È evidente che di fronte a questa discontinuità  l’azione di rappresentanza debba essere sostanzialmente ridisegnata. No budget, no lobby. E a Bergamo la Confindustria ha iniziato a farlo con la logica del «piuttosto che aspettare la politica, cominciamo noi» . Che altro ragionamento, se non questo, c’è dietro la coraggiosa proposta di prendersi in carico l’Istituto del commercio estero (Ice), uno strumento decisivo per l’affermazione dell’export italiano? Ma una dietro l’altra dal palco sono arrivate diverse altre idee, tutte in linea con la nuova filosofia sussidiaria. Gli industriali si sono candidati a investire per favorire la diffusione della lingua inglese, a organizzare un mall a Berlino per i marchi del made in Italy di fascia media, a finanziare cattedre di mobilità  per far rientrare nel Paese i migliori ricercatori. Non sottolineare il cambio di cultura che sta dietro quest’assunzione di responsabilità  sarebbe a questo punto un’omissione. La seconda novità  di Bergamo riguarda il modo di operare di Confindustria. Oggi quella presieduta da Emma Marcegaglia si presenta come un’organizzazione a delega eccessivamente lunga, incomprensibile nell’epoca di Facebook e Twitter come si è visto persino dal resoconto pubblico dei lavori di ieri. C’è un centro romano pletorico e molte duplicazioni di strutture, la vita interna si svolge lungo cerimoniali e procedure che non hanno più ragione d’esistere e via via si è formato un ceto di «professionisti della rappresentanza» — come li ha definiti dal palco l’ex direttore generale Stefano Parisi —, continuamente a caccia di una presidenza. Per non parlare dei convegni che animano i borghi di S. Margherita Ligure o Capri e durante i quali gli imprenditori, giovani o attempati che siano, servono solo a misurare gli applausi del politico di turno.
Ridisegnare Confindustria non è un’operazione che si possa chiudere in 24 ore, però a Bergamo è parso chiaro che la riforma passa da un rinnovato protagonismo di territori e categorie. Ascolto è stata la parola chiave dell’Assise, dovrebbe diventarlo anche nella routine della confederazione. Se queste sono state le confortanti primizie emerse nell’adunata di ieri è sulle tendenze del modello capitalistico italiano post-Grande Crisi che ancora non pare sia maturata un’analisi condivisa. Si sentono discorsi diversi. La sottolineatura dell’orgoglio del manifatturiero che fa dire a mo’ di battuta al presidente di Assolombarda, Alberto Meomartini, che «noi dovremmo tifare per Manchester più che per Barcellona» . La richiesta ai Piccoli di muoversi, di battere la sindrome dell’appagamento e costruire aziende più grandi che possano competere con maggiori chance sul mercato globale. L’enfasi più che giustificata sui temi della ricerca che in Italia avrebbe bisogno di investimenti per almeno un miliardo di euro. Si dicono cose diverse e non necessariamente in contraddizione tra loro, ma si parla poco di rispecializzazione del modello Italia e altrettanto poco di capitalismo delle reti. Se riprenderemo a crescere molto dipenderà  dalla capacità  che avremo di creare una nuova catena del valore lungo l’asse fornitura-fabbrica-logistica-distribuzione. Alcuni prodotti tipicamente nostri vanno reinventati, altri vanno portati in tempi certi sugli scaffali giusti di Paesi nuovi. Nella descrizione di questo sforzo si può leggere l’oroscopo dell’industria italiana.


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