Obama, silenzi e promesse

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GERUSALEMME – Se in Medio Oriente sono nate e si sono sviluppate proteste che hanno attraversato molti Paesi, «non è stata l’America» a provocarle, ma quelle proteste «sono nate spontaneamente dalla gente» che chiede libertà  e democrazia, ha detto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nel corso del suo intervento sul Medio Oriente ieri al Dipartimento di stato. Una sacrosanta verità , perché appena cinque mesi fa Obama dialogava amabilmente con il suo alleato strategico al potere da trent’anni Hosni Mubarak, intratteneva buoni rapporti con il despota tunisino Ben Ali e proseguiva la cooperazione «antiterrorismo» con il «pazzo» Gheddafi. Il discorso «numero 2» al mondo arabo-islamico di Obama, a due anni dal primo che pronunciò al Cairo sotto lo sguardo compiaciuto del passato regime egiziano, ha insistito troppo con le valutazioni sulle ragioni delle rivolte già  fatte e ascoltate da più parti in questi cinque mesi e su una scontata esaltazione della nuova comunicazione on line, in un quadro dove gli amici e i nemici dell’America sono sempre gli stessi. A cominciare dall’Iran – il regime iraniano, ha detto Obama, è «ipocrita, appoggia le proteste per i diritti all’estero e le sopprime in casa» – per finire con la Siria: «Bashar Assad guidi la transizione o lasci il potere», ha intimato il presidente Usa. Critiche allo Yemen e al Bahrein, ma nessun attacco frontale agli alleati del Golfo, regnanti sauditi in testa, ai quali Washington concede la facoltà  di negare le libertà  fondamentali ai propri sudditi, a cominciare dai diritti delle donne che pure sono stati uno dei pochi passaggi interessanti del «major speech». «I diritti universali valgono per le donne come per gli uomini», ha affermato Obama. Dovrebbe spiegarlo al suo alleato re Abdallah dell’Arabia saudita. Prevedile l’aiuto, stile piano Marshall, a Tunisia ed Egitto (che si vedrà  cancellare un milioni di debito).
Alla vigilia del discorso qualcuno sosteneva che il conflitto israelo-palestinese sarebbe stato marginale rispetto al tema delle rivolte in Nordafrica e Medio Oriente. È stato il contrario. Obama ha lanciato un attacco durissimo all’intenzione del presidente Abu Mazen di proclamare lo Stato palestinese unilateralmente all’Onu, il prossimo settembre: «I tentativi palestinesi di delegittimare Israele falliranno – ha detto il presidente Usa rivolgendosi ad Abu Mazen – azioni simboliche per isolare Israele alle Nazioni unite in settembre non creeranno uno Stato indipendente»; e mentre pronunciava queste parole la commissione edilizia del Comune di Gerusalemme dava il primo via libera alla costruzione di 1.550 nuovi alloggi da realizzare all’interno di insediamenti ebraici situati a Gerusalemme est (la zona araba occupata con la guerra del 1967). I progetti riguarderanno Pisgat Zeev (dove 620 alloggi sono già  stati autorizzati anche da un comitato governativo) e Har Homa. È il «grazie» del premier Benyamin Netanyahu ad Obama che ha dedicato solo una mezza critica alla colonizzazione israeliana. I due si vedranno oggi a Washington e, domenica, Obama interverrà  di fronte all’Aipac, la principale e influente delle lobby americane filo-Israele. 
Il presidente Usa ha ribadito che l’unica soluzione resta quella dei due Stati, con Israele come «stato ebraico e patria per il popolo ebreo» e la Palestina come «patria del popolo palestinese» con frontiere che dovranno essere fondate su quelle del 1967, con scambi territoriali tra le due parti, e la Palestina dovrà  essere uno Stato «sovrano e non militarizzato». Ma il fatto più rilevante (e preoccupante) è l’aver chiesto una soluzione «con confini permanenti» tra i due Stati (con un ritiro israeliano in più fasi) lasciando a negoziati futuri le questioni più spinose: lo status di Gerusalemme e il destino dei 5 milioni di profughi palestinesi che da decenni vivono in campi profughi nel mondo arabo. Abu Mazen ieri sera ha convocato d’urgenza l’esecutivo palestinese e attraverso il caponegoziatore Saeb Erekat ha espresso soddisfazione per il riferimento ai confini del 1967. Ma in casa palestinese ieri sera regnava un clima da funerale. «L’attacco di Obama alla proclamazione unilaterale di indipendenza è stato durissimo e rischia di provocare un conflitto interno devastante» ha spiegato al manifesto una autorevole fonte dell’Anp che ha chiesto di rimanere anonima, «Abu Mazen è paralizzato, se farà  marcia indietro sotto le pressioni americane rischia il fallimento della riconciliazione con Hamas appena siglata». E da Gaza è stata immediata la reazione del movimento islamico (chiamato in causa da Obama: «I leader palestinesi non otterranno la pace o la prosperità  se Hamas insiste con il terrore e il rifiuto e i palestinesi non avranno mai l’indipendenza negando il diritto di Israele a esistere»). «In quel discorso non c’è nulla di nuovo, ignora una volta di più i diritti dei palestinesi», ha detto il portavoce del movimento islamico Ismail Radwan. «Un discorso schierato dalla parte d’Israele e concentrato sulla sola sicurezza dell’entità  sionista», ha spiegato, «noi comunque non accettiamo la richiesta (di Obama) di riconoscere quello che lui ha definito lo Stato ebraico». Infine in tarda serata è arrivato il secco «no» di Israele. Netanyahu ha dichiarato di «apprezzare» l’impegno per la pace di Obama, ma ha escluso il ritiro sui confini del 1967, richiamandosi a una lettera di rassicurazioni indirizzate in proposito a Israele nel 2004 dall’amministrazione di George W. Bush. Il «major speech» perciò lascia inalterato il quadro israelo-palestinese.


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