“Sessanta profughi alla deriva lasciati morire da navi Nato”

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ROMA – Cosa è accaduto nel canale di Sicilia tra il 27 e il 30 marzo? C’è un responsabile per la fine di 61 innocenti? In quei giorni, un barcone carico di 72 profughi (tra loro donne e bambini) diretto a Lampedusa va alla deriva a 60 miglia a nord delle coste libiche. Il 10 aprile, le correnti spiaggiano l’imbarcazione sulla costa di Misurata. Decimati dalla sete e dalla fame, sono sopravvissuti solo in 11. E le testimonianze di alcuni di loro raccolte ora dal quotidiano inglese “Guardian” raccontano di almeno due incroci con unità  militari dell’Alleanza impegnate nella missione “Unified protector”. «Un elicottero» e «una portaerei». Il primo presta un temporaneo soccorso, calando dal cielo acqua e biscotti. La seconda, avvista ma lascia al suo destino i profughi. È una storia che la Nato smentisce, ma per la quale chiedono delle risposte il ministro dell’Interno Roberto Maroni, due interrogazioni del Pd, la portavoce dell’Unhcr, Laura Boldrini, padre Moses Zerai, sacerdote eritreo che raccolse l’allarme dei profughi alla deriva. Dunque e di nuovo: cosa è accaduto?
Raggiunto telefonicamente, padre Zerai, sacerdote eritreo che vive a Roma, ha un ricordo piuttosto nitido. «La mattina di sabato 26 marzo – dice – verso le 8 e mezza, ricevo una telefonata da un satellitare. È un’imbarcazione di profughi. Mi dicono di essere in avaria nel canale di Sicilia e mi forniscono, insieme alle coordinate che indica la bussola di bordo, il numero di satellitare perché possa dare l’allarme. Cosa che faccio, chiamando la centrale operativa della Guardia Costiera, a Roma. Sono loro, lo stesso giorno, a dirmi che hanno individuato la barca e lanciato l’allarme. Poi, lunedì 28 marzo, allerto anche il comando Nato a Napoli».
Il capitano di vascello Vittorio Alessandro, portavoce delle capitanerie di porto, conferma la sostanza dei ricordi di padre Zerai, ma ne corregge significativamente i tempi. Oltre a spiegare che ne fu di quell’allarme. «Dai dati registrati dalla sala operativa – dice Alessandro – risultano due chiamate di padre Zerai. La prima, la mattina del 25 marzo, riguardava un barcone con 350 profughi, regolarmente soccorsi e arrivati il 27 a Lampedusa. La seconda, è delle 16.23 del 27 marzo, domenica. In quella comunicazione, ci venne dato il numero di un satellitare “Turaya”, attraverso il quale, con individuazione gps, localizzammo l’imbarcazione 60 miglia a nord di Tripoli, dunque in acque territoriali libiche». A questo punto, trascorrono solo 17 minuti prima dell’allarme. «Alle 16.40 – prosegue Alessandro – avvertimmo i maltesi di tenersi pronti a soccorrere l’imbarcazione, dal momento che, secondo le nostre stime, avrebbe potuto attraversare la loro area di intervento. Quindi, diramammo l'”American safety information”, un avviso a tutte le imbarcazioni, militari o civili che incrociavano nel Canale, di tenersi pronte al soccorso. Ma non abbiamo saputo più nulla».
I “record” della Guardia Costiera indicano che le autorità  maltesi, nel negare sin qui di essere mai state attivate, hanno mentito. È un fatto che, nel ricordo dei profughi sopravvissuti, non molto tempo dopo la telefonata a padre Zerai (che abbiamo visto essere del 27 marzo e non del 26), sulla loro testa volteggia un elicottero militare con l’insegna “Army” che li rifornisce di acqua e biscotti facendo cenno di attendere i soccorsi. Di chi è quell’elicottero? I maltesi smentiscono sia loro. È della Nato, allora? L’Alleanza non lo ammette, né lo smentisce. Ma è possibile, anche perché – come lo stesso quartier generale a Bruxelles conferma – nella notte tra il 27 e il 28 marzo, unità  navali Nato, proprio in quell’area di mare (50 miglia a nord di Tripoli) mettono in salvo 500 profughi su due barconi. È insomma possibile che la sfortuna, il buio, e la deriva privino di soccorso proprio il barcone con i 72 profughi.
Un mistero, al contrario, quel che accade, ancora nel ricordo dei sopravvissuti, «il 29 o 30 marzo». Parliamo dell’incontro con una portaerei che abbandona i disgraziati al loro destino. Qui la smentita Nato si fa radicale. «In quei giorni, avevamo una sola portaerei sotto il nostro comando, la “Garibaldi” ed era a 100 miglia dalle coste libiche. Impossibile qualsiasi incrocio». Stesso discorso per i francesi. La “Charles De Gaulle”, tra il 29 e il 30, incrociava a oltre 100 miglia nautiche dal Golfo della Cirenaica. E il ricordo, preciso, non è di fonti militari a Parigi (che pure ieri hanno smentito), ma di Romain Rosso, giornalista de l’Express, in quei giorni embedded sulla portaerei. Dice a “Repubblica”: «Eravamo 100 miglia a nord della Libia. A metà  strada in linea d’aria tra Tripoli e Bengasi». Insomma, troppo a Est per immaginare di incrociare la rotta del barcone.
Dunque? Se i sopravvissuti ricordano bene e le informazioni della Nato sono corrette, resta una sola possibilità . Che ci fosse una terza portaerei – o meglio una nave che le somiglia molto – non sotto comando Nato che incrociava in quelle acque. Ebbene, un’unità  di questo tipo, a nord della Libia, in quei giorni c’era: la americana “Us Kearsarge”, nave d’assalto anfibia “tutto ponte”, con a bordo 350 marines, aerei a decollo verticale Harrier, e, naturalmente, “elicotteri”. Agli occhi di un profugo e non di un ammiraglio, una portaerei.


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