Stop al nucleare “grazie” ai disastri

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Subito dopo Cernobyl, Franz-Josef Strauss, il boss della Csu, la Democrazia cristiana bavarese, disse che gli incidenti avvengono solo nei reattori “comunisti”. La mazzata vibrata dalla tragedia giapponese all’industria nucleare mondiale è che Fukushima dimostra che non è vero. Come scrivono gli analisti di una grande banca globale, la svizzera Ubs, il disastro “sta avvenendo in una economia avanzata, che utilizza tecnologie americane e giapponesi, non in uno stato totalitario con una tecnologia substandard e senza cultura della sicurezza”. Cernobyl era un reattore pericoloso per come era concepito, quelli di Fukushima no: la falla che hanno aperto nella leggenda del nucleare sicuro non è più richiudibile. 

La tecnologia dei reattori ha fatto certamente progressi, nei quarant’anni da quando è stata aperta la centrale di Fukushima, ma questo non è l’aspetto più rilevante. A far venire i brividi, in Giappone, più degli specifici guasti agli impianti, è lo spettacolo di disorganizzazione, improvvisazione, disperazione offerto da due mesi di interventi di emergenza. Aspettavamo una risposta coordinata ad eventi prevedibili e previsti. Abbiamo avuto una rincorsa affannosa e, spesso, impotente a sviluppi sistematicamente imprevisti. La tragedia di Fukushima non è soltanto il risultato dello tsunami o del terremoto: è anche la lunga catena di colpevoli omissioni, di errori, di negligenze, di incompetenze, di scommesse sbagliate che li segue. Mentre, in diretta televisiva, il mondo assisteva alle esplosioni che scuotevano gli edifici e i reattori procedevano inesorabilmente verso il meltdown, la sofisticata tecnologia moderna era ridimensionata alle attrezzature di emergenza quotidiana. “A questo punto – ha scritto la Reuters – l’ultima linea di difesa contro un disastro nucleare si riduce a questo: l’idrante di un camion antisommossa, un elicottero contro gli incendi nelle foreste e una corsa contro il tempo per riportare l’elettricità . Ad una settimana dallo scoppio della crisi, in uno dei paesi più ricchi e più tecnologicamente avanzati del mondo, l’arsenale di strumenti appare improvvisato, tecnologicamente antiquato e sottodimensionato. È la somma di errori, sfortuna e disperata improvvisazione”.
Ma Fukushima non è la pecora nera: quello che in queste settimane abbiamo imparato dell’industria nucleare – in Giappone, come in Germania, come negli Stati Uniti – ci rimanda l’immagine di centrali in cui, in ultima analisi, la sicurezza è affidata all’operaio che dimentica di stringere un bullone, al dirigente che preferisce risparmiare sulle riparazioni, all’ente di controllo che preferisce chiudere un occhio per non turbare i profitti aziendali.
Con il continuo aumento del costo delle centrali, è difficile sostenere che l’atomo sia una energia economica. Dopo Fukushima, è impossibile sostenere che sia sicuro. Per una volta, l’Italia può ringraziare la fortuna. Cernobyl, con il referendum che chiuse le nostre centrali, ci ha risparmiato l’angoscia dei tedeschi, che si trovano a dover sostituire, di colpo, l’elettricità  prodotta dalle loro centrali e quella dei giapponesi, il cui premier, Naoto Kan, ha appena dichiarato la rinuncia a costruire nuove centrali. Fukushima ci consente di non entrare nel nucleare, senza perdere neppure un euro, che non abbiamo ancora speso. E libera alcune decine di miliardi di euro, da investire in energie più affidabili e più sicure.


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«I piccoli gesti quotidiani, a cosa servono? Non spostano nulla…». E’ una critica politica diffusa alle azioni che ognuno di noi può fare per aiutare il pianeta: risparmiare energia, consumare prodotti locali e cibi organici, partecipare a gruppi di acquisto solidale e a bilanci di giustizia, coltivare un orto, non sprecare, ridurre i consumi, usare le mani invece invece delle tanta macchinette, tornare a camminare, andare in bici, scegliere pannolini di tessuto e non gli usa e getta, costruire una casa secondo la bioedilizia, usare fonti di energia rinnovabili, fare la raccolta differenziata, riciclare, ridare valore a medicine tradizionali e così via.

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