Damasco: “Uccisi 82 poliziotti, reagiremo”

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Un massacro, stavolta di nuovo stampo, insanguina ancora il “risveglio arabo” in Siria: ieri la tv di Stato trasmette la notizia dell’uccisione di 82 uomini delle forze di sicurezza nella provincia di Idlib, nel Nord Ovest, vicino al confine con la Turchia. Lì, fra le pietraie dove s’annidano le città  morte d’epoca bizantina, da sabato infuriano scontri fra quelle che il governo definisce «bande di uomini armati» e reparti anti-sommossa rafforzati da unità  dell’esercito.
Stando alla ricostruzione ufficiale, 28 poliziotti sarebbero caduti in un’imboscata alle porte della cittadina di Jisr al-Shughour. Otto, di guardia nell’ufficio postale, sarebbero stati colpiti da bombe artigianali; 37 erano invece all’interno di una stazione della sicurezza. Altri ancora sarebbero stati uccisi negli scontri a fuoco con gruppi appostati sui tetti e che avrebbero sparato su civili e servizi di sicurezza. Dal canto loro, i militanti parlano di almeno 28 morti fra i dimostranti. Se tutto questo fosse confermato, il numero delle vittime fra le forze dello Stato salirebbe a 120 in due giorni, e a circa 300 dall’inizio delle proteste in marzo (contro almeno 1000 fra i dimostranti, stando agli attivisti). Due oppositori da Nicosia attribuiscono il massacro all’opera di agenti intervenuti a schiacciare un ammutinamento.
«È un dato che fa riflettere», sostiene un acuto osservatore della Siria come Joshua Landis, docente di storia araba alla Oklahoma University e autore di un blog rispettato come Syria Comment. «Rivela quanto i moti siriani siano diversi da quanto s’è visto in Egitto o in Tunisia. Ogni parte dipinge l’altra con tratti demoniaci: il governo definisce salafiti, fondamentalisti, i dimostranti, finanziati da una congerie di elementi esterni – sauditi, libanesi, neocon americani – mentre la gente in piazza stigmatizza come shahiba, banditi, le forze della sicurezza, affibbiando loro i connotati confessionali degli alawiti. È solo questione di tempo prima che la violenza esploda in tutto il Paese».
Lo scenario delineato da Landis riporta alle insurrezioni armate degli Anni ‘80, agli scontri “fino all’ultimo sangue” fra il regime allora guidato da Hafez al-Assad e i Fratelli musulmani. «Alla riunione indetta la settimana scorsa in Turchia da una certa opposizione in esilio», dice Landis, «si sono sentite le voci di chi è disposto a sacrificare anche tre milioni di vite per scalzare il regime. In più, se alcune province dovessero cadere nelle mani dei ribelli come suggeriscono gli scontri a Jisr al-Shughour, il quadro cambierebbe in modo drammatico: verrebbero a crearsi delle Bengasi sul modello della Libia. Certo, i ribelli non avrebbero difficoltà  nel ricevere armi e finanziamenti dall’esterno».
A Damasco, in serata, il ministro dell’Interno al-Shaar sfida “i gruppi armati”: «Lo Stato non resterà  a braccia conserte», dice. Il circolo mortale sembra farsi ogni giorno più serrato: alla brutale repressione del regime segue una risposta organizzata. Se ha ragione Landis, l’escalation non si farà  aspettare.

 


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