Gli indiani padani

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Allora quella verde della Lega non era ancora obbligatoria. Sei anni prima questo varesotto mattocchio sbarcava il lunario friggendo le patate nelle feste del paese e andava ad attaccare manifesti per il movimento nascente della Lega. Lo aveva illuminato sulla via di Damasco Bruno Salvadori, un federalista valdostano di cui oggi pochi ricordano il nome. Viene il mio turno, ci chiudiamo nel suo ufficio: lui attacca un excursus storico filosofico e si mette a parlare del marxismo “che ha vinto le teorie idealistiche perché era scientifico, ma anche noi lo siamo”. Questo, mi dico, è un casciabal provinciale, ma pericoloso: furbo e visionario. Gli chiedo: “è vero che nei primi anni ti facevi tuoi centomila chilometri di auto?” “Anche centoventi-centoquaranta. Li facevo per spargere il nostro veleno silenzioso, il nostro giornale Autonomia lombarda. Io non ero convinto di entrare in politica, volevo laurearmi e fare il mio lavoro di elettromedico”. “Che cosa?”. “Ma sì, non lo sai? Io se vuoi ti fabbrico un laser, ero nell’équipe del professor Zuffi, studiavamo il cuore alle altre temperature”. “Ma cosa ti convinceva a continuare quando eravate quattro gatti indebitati?” “Quando di una cosa sei certo come fai a piantarla? Il sistema dei partiti era in crisi. Loro credevano nei loro automatismi: se hai il denaro compri consensi, se hai i consensi vinci le elezioni e trovi nuovo potere, se hai il potere trovi nuovo denaro. È bastato mettere un bastone nell’ingranaggio per farlo saltare. Non si sono accorti di noi negli anni in cui potevano schiacciarci, ma noi eravamo come gli indiani che tirano le frecce e spariscono, non capivano il nostro linguaggio, non capivano chi potessero essere questi giovanotti provinciali”. Quel mattino Umberto Bossi si sfogò, mi parlò di quella strana mistura di umorismo popolare e di furbizia politica che lo contraddistingue, si lasciò andare sulla sua epica lotta contro Bettino Craxi, il mostro partitico che lui aveva colpito a morte con il suo rampone corsaro. Ricevetti lettere di critica e di condanna dai democratici di buone letture e di corrette frequentazioni quando scrissi un editoriale intitolato “Grazie barbari”. Grazie rudi e incolti leghisti per aver ridimensionato una democrazia pigra e spesso ipocrita. La sottovalutazione di Bossi è stata una delle ragioni del suo successo. L’uomo è rozzo e pericoloso ma ha doti popolari, a cominciare dall’umorismo. Lo dimostra la battuta sul figlio citato da tutti come il suo delfino: “no, al massimo una trota”. La Lega, il regionalismo, il separatismo non li ha inventati Bossi. Quando si può scrivere, come Giorgio Ruffolo vent’anni fa, questa amara verità  il successo della Lega è comprensibile: “mai negli ultimi 50 anni l’obiettivo dell’unificazione dell’Italia è parso così lontano e frustrato”. Resistono delle unità  ideali, il mito del Risorgimento, il prestigio della cultura, ma a remare in senso contrario c’è la diffusione delle mafie, delle camorre. La Lega mostra nella sua crescita aspetti contraddittori: conquista quartieri operai e comunisti ma anche le campagne democristiane. Raccoglie anche le ragioni della media e piccola borghesia. Non è stato, come si vuol far credere, un tradimento di classe, un avventurismo politico. Semplicemente ci sono state parti della borghesia che hanno visto nella Lega, se non l’uscita, un correttivo alla politica dominante delle clientele corrotte. Nella prima amministrazione leghista di Milano entrarono medici, urbanisti, sociologi che volevano fare del buon lavoro senza passare per i partiti e per i loro appetiti. Ancora oggi il voto della Lega è legato un’ambiguità  profonda: vive a metà  fra il desiderio della buona amministrazione e la creazione di nuovi sistemi paramafiosi di accaparramento dei posti di lavoro. Ambiguità  che si manifesta nella scelta di governo: assieme a Berlusconi e alla sua democrazia autoritaria negli affari, contro di lui di fronte all’opinione pubblica.

 


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