La generazione post-televisiva

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Dall’America di Obama all’Egitto di Mubarak e alla Libia di Gheddafi, dalla Spagna alla Grecia degli “indignati” fino all’Italia (non meno indignata) dei referendum, l’onda lunga di Internet travolge abitudini individuali, rapporti interpersonali e comportamenti di massa, rivoluzionando lo scenario mediatico e politico. Un nuovo soggetto collettivo s’impone ormai da protagonista sulla scena: la generazione post-televisiva che abita virtualmente sulla Rete, frequenta Facebook o Twitter, anima i blog, comunica sui telefonini attraverso sms e mms.
È un movimento trasversale fondato sull’individualismo attivo e sulla partecipazione, sull’autonomia e sull’indipendenza di giudizio, sulla mobilitazione e sull’impegno civile. Sfugge a qualsiasi riferimento ideologico. Ripudia ogni inquadramento nei partiti tradizionali e anzi pretende di orientarli e magari condizionarli dall’esterno.
Non è soltanto una caratteristica generazionale, anagrafica. Quanto piuttosto una dimensione esistenziale, un atteggiamento mentale, una disposizione verso la società . Una condizione, insomma, d’identità  e di cittadinanza mediatica.
Chi non naviga abitualmente su Internet può sforzarsi d’interpretare e comprendere il fenomeno, magari anche di condividerlo. Ma comunque non lo vive quotidianamente e non lo sente.
Il “digital divide” è un muro che, a differenza di quello di Berlino, produce una separazione verticale tra chi fa parte della comunità  virtuale del web e chi ancora ne resta fuori. E in tutto ciò – come ha detto nella sua Relazione annuale il presidente dell’Authority sulle Comunicazioni, Corrado Calabrò, con un esplicito riferimento all’esito dei nostri recenti referendum – “i social network si rivelano ineguagliabili per fare degli individui gruppo”.
Eppure, dalla stessa fonte ufficiale proviene la conferma che in Italia la televisione è ancora il veicolo di gran lunga prevalente per l’informazione: quasi il 90%, poi vengono i quotidiani con il 61% e infine Internet con appena l’11,3%. All’interno del settore televisivo, ancora in crescita nel 2010 in termini di risorse al tasso del 4,5%, Mediaset rappresenta il 30,9% del totale (pubblicità  più abbonamenti); Sky il 29,3 e la Rai il 28,5.
Sta di fatto che il vecchio duopolio, cioè le sei reti generaliste di Rai e Mediaset, continuano a detenere ancora il 73% di share medio giornaliero, mentre La 7 – nonostante la qualità  della sua programmazione – ha poco più del 3% e Sky con tutti i suoi canali, inclusa Fox, arriva a stento al 5%. L’anomalia per cui l’azienda del presidente del Consiglio rastrella il 56% delle risorse pubblicitarie con il 38% degli ascolti può apparire un “mistero industriale” – come qui denunciamo da anni, tanto da attirarci querele e richieste di risarcimento – soltanto a chi lo scopre adesso.
Ha fatto più che bene allora il presidente della Camera, Gianfranco Fini, a ricordare nella stessa cerimonia a Montecitorio che»in prospettiva, occorrerà  porsi il problema della giusta valorizzazione pubblica delle risorse frequenziali televisive, attraverso un adeguamento economico dei canoni». E cioè, in buona sostanza, sarà  opportuno aumentare il canone di concessione che per un colosso come Mediaset ammonta appena all’1% del fatturato. «Lo Stato – ha avvertito polemicamente Fini – deve sempre perseguire il massimo di beneficio pubblico dalla cessione dei diritti d’uso sia che si tratti della concessione delle spiagge o che si tratti della cessione dell’etere”.
Se almeno una parte di queste maggiori risorse fossedestinataallo sviluppo della “banda larga” o meglio ultra-larga, per ampliare la rete e in particolare la rete mobile, anche in Italia Internet potrebbe finalmente contribuire a ridurre il dominio della televisione, ridimensionandone il ruolo di “persuasore occulto”. E questo, naturalmente, avrebbe effetti senz’altro proficui sulla vita sociale collettiva.


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