La silhouette come arma crudele per denunciare secoli di violenza

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Torino – la storia dell’umanità  e quella delle singole nazioni è costellata di orrori che rischiano continuamente di ripetersi. Ci si imbatte nelle stesse violenze e nelle medesime efferatezze a causa della memoria corta. L’artista afro-americana Kara Walker, classe 1969, ne è così convinta che costruisce il suo mondo mettendoci di fronte a ciò che individualmente e collettivamente si tenta di rimuovere: misfatti quotidiani, sopraffazioni, abusi dei corpi e delle menti, uccisioni, stupri e genocidi fatti in nome della razza. Solo che, a differenza di molti protagonisti dell’arte contemporanea, la Walker non si limita a documentare i fatti, mostrandoli nella loro brutalità , li trasfigura in un immaginario che ha nella storia della pittura, della scultura, del disegno, delle arti applicate, ma anche del cinema, della letteratura, del teatro d’ombre, le proprie radici. La sua denuncia impietosa avviene sul piano dell’opera, in cui il pensiero diventa forma, oggetto artistico affascinante e misterioso. La mostra curata da Olga Gambari alla Fondazione Merz “Kara Walker. A negress of noteworthy talent”, aperta fino al 3 luglio, è un viaggio tra ombre e luci, segni e suoni, trasparenze, stratificazioni, mondi sommersi, stereotipi scoperti e improvvisamente diventati consapevoli, attraversamenti di spazi sospesi, narrazioni intrecciate tra mito, fiaba, cronaca. Un’esposizione che ha visto lavorare insieme artista e curatrice con il nume tutelare di Mario Merz, perché le opere della Walker hanno trovato una casa ideale nella Fondazione e si contaminano e arricchiscono nel dialogo con due opere storiche dell’esponente dell’arte povera.
Tutto nasce da una silhouette di carta ritagliata: leggera, elegante, sintetica ma piena d’energia, guizzante come una fiamma. Con questa Kara Walker mette in scena le sue storie della comunità  afro-americana degli Stati Uniti. Tra elementi grotteschi e grandi malinconie parla di schiavitù, pregiudizi, difficoltà  di integrazione, dell’idea stessa dell’identità  e dell’alterità  in termini razziali, ma anche in termini sessuali. “Pittrice, donna e nera”: è questa la definizione che dà  di se stessa e con questi tre elementi che costituiscono la sua essenza, dà  vita a un’arte in cui convivono il disegno, la scultura, l’installazione, il video, l’animazione. Nella volontà  di scardinare le gerarchie rivendica come elemento fondamentale del suo lavoro anche le arti cosiddette minori, quelle che un tempo erano destinate alle fanciulle. In questo contesto scova, appunto, la carta che ritaglia e trasforma in arma. La schiera di figurine che ti accoglie nella prima sala di questa mostra, “una lanterna magica aperta sulla parete” la definisce la Gambari, ha un impatto gradevole che ti cattura disarmandoti. La Walker attrae con una specie di danza magica e silenziosa dentro un incantesimo che soltanto a uno sguardo più attento si rivela un incubo. Un linguaggio tipico dei salotti borghesi tra Sette e Ottocento come la silhouette – rassicurante e favolistico – si trasforma nell’emblema di secoli di sopraffazione e violenza. In quest’opera convivono le suggestioni di due romanzi Le avventure di Huckleberry Finn e La capanna dello zio Tom, sagome e carte dipinte che, nel mettere insieme la storia dell’arte e la cultura popolare, sembrano nascere da una suggestione dei cartoon. Il movimento e la trasparenza della Doppia spirale di Mario Merz, con cui sono in relazione, suggeriscono una lettura in chiave dinamica della narrazione, come se, spezzando il cerchio, si riuscisse a intravedere una possibilità  di riscatto. Kara Walker però ti riporta subito dentro l’orrore con le pitture di fronte: fondi colorati e dipinti con pennellate espressive da cui sbocciano sagome di volti apparentemente innocui. Peccato che li abbia tratti dalle fotografie di gente che assisteva, famelica e eccitata, alle esecuzioni e ai linciaggi dei neri.
Questo modo di portarti dentro l’opera con grazia per poi sferrare un colpo alla pancia e alla coscienza, sembra accomunare le donne artiste, sorrette da una necessità  di creare tra l’intimità  e la storia: viene in mente l’anglo-palestinese Mona Hatoum con i suoi oggetti di vetro che si rivelano bombe, o l’egiziana Gadha Amer che tesse le fila di storie apparentemente astratte sotto cui pulsa una sessualità  sfacciata.
Qui sono meravigliosi i piccoli acquerelli e le sculturine che mimano la vita di villaggi dove il pericolo è sotterraneo e l’allarme sempre presente. Sotto la scritta di Merz, Pittore d’Africa, la Walker parte da un film del 1957 Tamango per ideare uno storyboard che ha per protagonista una donna che raccoglie tutti i cliché connessi all’idea stessa del femminile africano, tra attrazione e paura. E poi ci sono i film animati: mondi in movimento con le marionette che rivelano la loro finzione (intravedi spesso chi ne muove i fili) ma anche tutta la verità  riassunta in archetipi, in struggenti tenerezze cercate e interrotte, in lotte furiose per la sopravvivenza. Crudeli e commoventi.


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