Le prediche utili al governo che verrà 

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Le ultime «Considerazioni finali» sono un manifesto in cui si fondono al meglio la cultura liberale e l’economia sociale di mercato. Tutto quello che il thatcheriano Berlusconi e il colbertiano Tremonti avevano promesso e non hanno saputo dare all’Italia. «Tornare alla crescita». L’imperativo categorico che aprì l’era Draghi a Palazzo Koch nel marzo del 2006 è lo stesso che la chiude in questo maggio 2011. Anni di analisi, di esortazioni, di proposte, per rimettere l’Italia in condizioni di produrre ricchezza, e di redistribuirla equamente tra imprese e famiglie.
Anni a invocare «riforme strutturali» nei settori chiave dello sviluppo, dal fisco al mercato del lavoro, dalla concorrenza alle pubbliche amministrazioni. Anni in cui la politica non ha ascoltato, ha imbrogliato le carte, ha fatto finta di non vedere. Anni che vedono l’Italia in affanno sulla media europea in tutti gli indicatori, dal Prodotto lordo alla produttività , dagli investimenti esteri alle retribuzioni reali. Anni «inutili», appunto, che spingono Draghi a evocare le famose «prediche» di Einaudi e a rivolgere al governo la rampogna di Cavour sulla politica che non capisce che «le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità , la rafforzano».
Draghi si congeda così, con un atto d’accusa elegante ma netto, rivolto a chi in questi anni doveva e poteva fare e non ha fatto. La mancata crescita è questione antica. Ma il quinquennio di cui parla il governatore, più che il governo Prodi (tarato da un programma elefantiaco e numeri inconsistenti) chiama in causa il governo Berlusconi (dotato di numeri stratosferici ma un programma inesistente). Un governo che non ha fatto riforme quand’era in luna di miele con gli italiani, e che ora li illude con altre chimere fuori tempo massimo, senza avere dalla sua né la politica né l’aritmetica. Un governo che dopo la disfatta elettorale rilancia a sproposito lo slogan «meno tasse per tutti», mentre si è impegnato con la Ue al pareggio di bilancio entro il 2014, senza sapere che questo impegno lo obbligherà  a tagliare la spesa corrente di 5 punti percentuali nel prossimo triennio. Silvio e Giulio saranno anche contenti di essersi liberati del «fantasma» di Draghi. Ma dovrebbero spiegare ai cittadini su quali misure concrete e su quale base parlamentare intendono poggiare la prossima manovra da 40 miliardi. A occhio, la «stampella» dei responsabili sembra assai fragile allo scopo.
Sul piano della finanza pubblica, oggi l’Italia è un gigantesco ospedale, che somministra cure indiscriminate. Grazie a queste cure non siamo finiti come la Grecia, e almeno di questo il governatore dà  atto a Tremonti. Ma per colpa di queste cure il Paese rischia di bruciare ricchezza per 2 punti di Pil nei prossimi tre anni. È l’esito dei famigerati «tagli lineari», che impediscono di «allocare risorse dove sono più necessarie». È quello che molti economisti, non solo in Banca d’Italia, ripetono da tempo. Ma è quello che il ministro del Tesoro si ostina a non ascoltare, e che Draghi gli rimprovera apertamente. Indicandogli persino un modello alternativo: la «spending review», cioè l’analisi capillare della spesa pubblica da rimodulare secondo voci specifiche e obiettivi mirati, per «conseguire miglioramenti capillari nell’organizzazione e nel funzionamento» di uffici, scuole, ospedali, tribunali. È il modello che Tommaso Padoa-Schioppa avviò nell’ultimo anno di governo dell’Unione, e che Tremonti ha smantellato subito dopo averlo sostituito a Via XX Settembre.
Sul piano dell’economia reale, oggi l’Italia è una gigantesca palude, con piccole eccellenze e un grande futuro dietro le spalle. Un Paese paralizzato dall’inazione dell’esecutivo e dalla rendita dei monopoli, dall’inefficienza delle amministrazioni e dalla resistenza delle corporazioni. Ma a chi imputare, se non soprattutto al governo in carica, i sette nodi che soffocano la crescita? La riforma della giustizia civile, il disastro della pubblica istruzione, la mancata liberalizzazione nei servizi, lo scandaloso ritardo nelle infrastrutture, il mercato del lavoro, l’occupazione femminile, le protezioni sociali. L’elenco di Draghi è impietoso, il responso dei numeri doloroso. L’«occorrismo», proprio dei moniti delle più autorevoli istituzioni repubblicane, è sempre in agguato: «occorre» far questo, «occorre» far quello. Ma è un fatto che non uno di questi nodi è stato sciolto, in questi anni. Semmai ulteriormente serrato. Ed ognuno di questi nodi è costato e costa punti di Prodotto lordo. Cioè ricchezza sprecata, posti di lavoro bruciati, investimenti sfumati.
«Quale Paese lasciamo ai nostri figli?», si chiede il governatore. Risanamento e modernizzazione sono sfide mancate, ma non ancora perdute. Ascolti Draghi e ti convinci che il declino non è un destino. Il ritorno a Cavour che dice «il risorgimento politico di una nazione non va mai disgiunto dal suo risorgimento economico» ti fa ben sperare. Anche se il governatore, ormai, ragiona più da tedesco che da italiano. Quando affronta i temi della crisi planetaria e della politica monetaria parla già  da presidente della Bce, che ha come unica stella polare «la stabilità  dei prezzi nel medio periodo» e che su tassi di interesse e liquidità  non farà  sconti a nessun governo. Eppure queste sue «Considerazioni finali», scandite prima del trasloco definitivo a Francoforte previsto per il prossimo autunno, stavolta risuonano tutt’altro che inutili. Insieme a quello di Draghi a Via Nazionale, altri cicli si stanno chiudendo in questo tribolato Paese. «Tornare alla crescita» è un programma eccellente, per il governo che verrà .


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