Lo scherzo di Milan K disegnatore di libri

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Questo cos’è?», chiese lo Scrittore.

«È la prova di copertina del suo libro del sorriso e dell’amnesia», disse il Grafico con aria soddisfatta, «modestamente l’ho fatta io».
Lo scrittore guardava il foglio con aria interdetta. Taceva.
«Non le piace?», chiese il Grafico.
«Non si scrive così», riuscì a obiettare lo Scrittore, «il titolo è sbagliato. E anche il nome, soprattutto il nome».
«Il lettering», lo corresse il Grafico, «vuol dire il lettering?»
«Già », disse lo Scrittore, «se vuole chiamarlo così. Senta, lei conosce uno scrittore praghese morto giovane che scriveva in tedesco? Era uno delle mie parti, ha scritto di castelli, di processi, di colonie penali e di altre cosette del genere».
«Non lo conosco», disse il Grafico, «sorry».
«Scusi», chiese lo Scrittore, «lei è inglese, francese o italiano? Non ho capito».
«Tutti e tre», rispose seraficamente il Grafico, «non ho nazionalità , caro Maestro, io sono internazionale come il mio computer. Sono global, senza offesa».
«Allora cerchi alla lettera kappa», disse lo Scrittore, «kappa come kerosene, kaputt, ketchup, killer, ha capito? Killer». Girò le spalle e se ne andò.
Quando arrivò a casa lo Scrittore si mise a pensare. Recuperare i suoi disegni era impossibile: non ne aveva mantenuto copia. Che idiota, affidare le proprie opere a un grafico global che voleva essere chiamato scienziato. L’unica cosa era rifare tutto a memoria. Andò nel suo studio, prese dei fogli e si mise a pensare. La memoria, che cosa ridicola. Però la memoria piange, forse piange lacrime ridicole, ma piange, come gli amori che da giovani ci fecero piangere e che dopo qualche anno ci sembrano ridicoli. E gli venne in mente la poesia di un poeta portoghese di cui non ricordava il nome che aveva letto in francese e che diceva: «Tutte le lettere d’amore sono ridicole, non sarebbero lettere d’amore se non fossero ridicole, anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore, come le altre, ridicole, le lettere d’amore, se c’è l’amore, devono essere ridicole».
E così disegnò due occhi un po’ strabici che versano due lacrime su una bocca piena di amarezza e vi scrisse: Laughable Loves. Prese un altro foglio e disegnò un’altra bocca quasi uguale alla prima ma con una piega più amara, e fra quelle labbra infilò una sigaretta che pendeva stancamente come se non avesse più voglia di essere fumata. E sopra la bocca, a tutta pagina, scrisse The Joke, con la J di Joke che pareva un lungo naso. Uno scherzo. Perché tutto era uno scherzo: la sua vita era uno scherzo, la vita in generale era uno scherzo, uno scherzo atroce che qualche dio demente ci giocava per ridere sadicamente di noi. E il gioco di quel dio delle tre carte consisteva nel farci scommettere sulla carta sbagliata sulla quale come degli idioti noi puntavamo l’indice: è questa, la vita è questa! E invece la vita era un’altra. Ma dove stava? La vera vita, come diceva quel poeta francese finito in Abissinia a vendere fucili, doveva essere da qualche altra parte, in qualche altrove, ma dove? Che rabbia. Gli venne in mente il toro che aveva disegnato la settimana prima e che il grafico aveva buttato via.
Però non era un toro, era un bufalo. Anzi, anche se era un maschio, gli piaceva ricordarlo come una bufala, di quelle che nell’Italia meridionale, aveva sentito dire, producevano le mozzarelle, formaggio difficilissimo da fare, perché a quanto pare lo sanno fare solo i napoletani e i salernitani che vanno lì, alle mammelle della bufala, e cominciano a lavorarle come se facessero giochi di prestigio: strizzano, palpano, mungono, in un gioco di mani antichissimo e indecifrabile, e dal capezzolo della mammella della bufala scende miracolosamente un latte cagliato con una forma ovoidale che si chiama mozzarella. E se la bufala è speciale, speciale il bufalaro, e speciale il clima, sulla mozzarella c’è una testolina un po’ più piccola, la pelle del prodotto è giallina come se fosse affumicata e la bufala con un po’ di sforzo caccia fuori una scamorza pronta da fare alla griglia. La bufala, cioè il bufalo che disegnò, era rinchiuso in una gabbia, ed era davvero imbufalito. Contro chi? Ma contro tutto e tutti, contro i sistemi politici che stanno di là  dalle sbarre e quelli che stanno di qua, perché sostanzialmente sono uguali e complementari, tu credi di essere evaso da una prigione e invece ti trovi in un’altra prigione, enorme quanto vuoi, ma delimitata da sbarre delle quali ti accorgi solo se ti avvicini.
E così pensando si mise a disegnare di nuovo tutto quello che il sedicente scienziato aveva buttato via. Ridisegnò perfino la sua Identity, perché non corrispondeva a quello che loro pensavano. E pensò anche che quel paese non gli si confaceva, e che voleva andarsene. Ma dove? Concluse che non c’era nessun posto in cui andare se non nella propria scrittura. Quella era la sua vera patria: abitare la sua scrittura come le chiocciole abitano il proprio guscio. E quando arrivò a questa conclusione sentì una grande leggerezza. Disegnò un cagnolino acciambellato su se stesso e sopra vi scrisse: The Unbearable Lightness of Being. Perché quella storia lui l’aveva vissuta, una volta. Ma come gli diceva da piccolo una tata tedesca, «Einmal ist Keinmal», una volta è nessuna volta. E subito pensò a quel filosofo, tedesco anche lui, che non potevi nominare perché se sentono il suo nome ti dicono che sei di destra, come se essere pessimisti fosse di destra. In quanto alla vita, quel tipo aveva proprio fatto centro: «La vita: un romanzo letto una volta sola tanto tempo fa».
Il romanzo. Ci sarebbe voluto un bel saggio sul romanzo dedicato a tutti gli scrittori che l’avevano rinnovato, in modo da farci rileggere la vita che altrimenti si dimentica. Sentì l’esigenza di scrivere un saggio dedicato al romanzo che ci protegge contro l’oblio, e nell’attesa di scriverlo poteva intanto disegnare la copertina. Il titolo sarebbe stato: L’arte del romanzo. Il titolo lo piazzò fra due ganasce bellicose, un po’ picassiane, che lo stringevano fra l’antico e il moderno. Perché l’antico e il moderno non dipendono dal calendario, dipendono dal genio degli scrittori. Era più moderno Rabelais con quei due divoratori di Gargantua e Pantagruele o Victor Hugo e i suoi romanzi d’appendice? Era più moderno Cervantes o quel noioso di Trollope e la sua regina Vittoria?
Poi aprì il computer e scrisse una mail allo Scienziato. «Gentile Scienziato, ieri, 7 gennaio 1977, sono andato al Collège de France a sentire la lezione inaugurale di un giovane filosofo che si chiama Roland Barthes. Ha iniziato la sua lezione con una frase che le invio perché può essere utile a lei e alla sua casa editrice. Cito alla lettera: “La letteratura lavora negli interstizi della scienza: è sempre in ritardo o in anticipo su di essa, simile alla pietra di Bologna che irradia durante la notte ciò che ha immagazzinato durante il giorno, e grazie a questa luce indiretta illumina il giorno a venire. La scienza è rozza, la vita è sottile, ed è per correggere questa distanza che la letteratura ci interessa”.
Cordialmente. MILAN QUNDERA».


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