Ossessioni precarie nel supermercato

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PESARO – La mostra di Pesaro (fino al 27) apre i suoi spazi internazionali al nuovo cinema, di oggi ma anche di ieri, visto che la personale di quest’anno dedicata Bernardo Bertolucci ci riporta a uno dei pochi esempi di nouvelle vague italiana, la sua rivoluzione del linguaggio ancorata a un preciso luogo (Parma), certi saloni e paesaggi e una classe sociale, la borghesia, da cui prendere le distanze. Oggi che non è più solo il proprietario terriero ad avere futuro incerto, un film come Prima della rivoluzione illumina il futuro di preveggenza, La strategia del ragno e Partner ci appaiono come sopralluoghi per i film successivi. Del resto il primo film di Bertolucci aveva come interprete principale un foglio inserito nella macchina per scrivere che la camera seguiva, come un vero e proprio carrello, con il sonoro dei tasti la sceneggiatura che veniva scritta nell’impossibilità  di avere ancora una produzione. La retrospettiva avrà  una serata cruciale con la proiezione di Novecento parte prima e parte seconda ininterrottamente (al teatro Sperimentale il 24 dalle 20)

Il festival continuerà  quest’anno una ricognizione del cinema russo iniziata lo scorso anno, ma con un filo conduttore che non ha mai abbandonato fin dagli anni ’70, quando iniziavano a farsi sentire i nomi dei cineasti sotto censura, come Sokurov documentarista straordinario della Lenfilm oscurato per più di dieci anni. Quest’ anno a Pesaro ci sono i nomi di punta del S. Petersburg Documentary Film Studio, Pavel Kostomarov e Aleksandr Rastorguev innanzi tutto e Alina Rudnickaja a mostrare come i tempi siano cambiati e come quella grande tradizione di cinema rispecchi in pieno il gusto delle giovani generazioni, con film proiettati con successo nei club di cinema, nuovi linguaggi sofisticati e personaggi metropolitani.
Prima ospite del concorso internazionale di sette film è la brasiliana Juliana Rojas che in coppia con Marco Dutra ha firmato Trabalhar cansa (Lavorare stanca). Dal Brasile del boom economico e in crescita politica e sociale non ci si aspetterebbe l’atmosfera plumbea che circola nell’appartamento di Helena e nel negozio di alimentari che ha appena aperto, mentre il marito è un manager che ha perso il lavoro. Un senso di tracollo imminente viene a minare ogni «libera iniziativa» tra colloqui di lavoro demenziali, misteriosi tubi sotto la pavimentazione, oscuri ritrovamenti dietro le pareti del negozio. Più vicino al senso di imminente default argentino di alcuni anni fa (come ad esempio La cienaga di Lucrecia Martel) che alla festosa atmosfera a cui ci ha abituato il Brasile, chiediamo alla regista di inquadrare il suo film nella società  in cui vive: «È vero che negli ultimi anni il Brasile sta vivendo un processo economico eccezionale, ma non raggiunge tutti. Fin dall’inizio della colonizzazione i nativi furono ridotti in schiavitù a cui si aggiunsero gli schiavi portati dall’Africa e questo diede origine a povertà  diffusa. Anche dopo l’abolizione della schiavitù c’è stata una grande distanza tra la povertà  e il livello della classe media. E anche il boom economico è andato a vantaggio delle classi alte, anche se i poveri in qualche modo hanno migliorato la loro situazione. Il nostro film non riflette la situazione contemporanea quanto una situazione che nel nostro paese risale alle origini».
Il cinema ci ha abituato alle stravaganze del sistema liberista, ma alcune delle scene più interessanti del film riguardano le esagerazioni dei colloqui di lavoro nelle aziende. Si tratta di invenzioni cinematografiche? «Abbiamo svolto indagini sulla ricerca del personale e abbiamo scoperto che usano criteri assurdi che si basano su test in cui si equipara il perfetto uomo d’affari alla scimmia che primeggia nella giungla, simile alla violenza del mercato; non so se accade lo stesso in Italia, ma negli Stati uniti come in Brasile ci sono molti di questi psicologi del lavoro che stimolano a far emergere il livello selvaggio. Sostengono ad esempio che Gesù è stato il più grande uomo d’affari che sia mai esistito. La simulazione dei manager che si scatenano come nella giungla l’abbiamo trovata nelle ricerche e abbiamo deciso di metterla nel film».
Juliana Rojas viene dalla Università  del cinema di San Paolo dove ha conosciuto il collega Marco Dutra e insieme hanno realizzato anche il film d’esame, selezionato da Cinéfondation per poi approdare al film d’esordio: «Ci sono molte scuole pubbliche di cinema in Brasile e in continuo aumento anche quelle private; la differenza è che quelle pubbliche, come a San Paolo, possono contare su bravi professori di teoria, anche se non abbiamo strumenti per mancanza di finanziamenti, mentre le scuole private spendono molto per le attrezzature ma non danno un’adeguata preparazione teorica».
Una certa atmosfera horror circola nel film. Avete qualche riferimento preciso? «Sono molti, ma non uno in particolare: Hitchcock, Rodriguez, Pedro Costa, ma anche Alexander Kluge. Tendiamo a mescolare riferimenti diversi, il punto principale è la storia da raccontare, poi cosa succede nei suoi rapporti personali. La nostra preoccupazione è mischiare elementi politico sociali e di genere, stimolare nel pubblico una riflessione sulla schiavitù, sul mercato del lavoro. Non volevamo che l’elemento fantastico prendesse il sopravvento su quello realistico. Penso che nelle nostre società  tutto quello che cerchiamo di reprimere o nascondere o addomesticare resta come un conflitto e continua ad emergere nella vita di tutti i giorni».


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