Se l’occidente vive in un “truman show”

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Anticipiamo un brano tratto dall’introduzione di Caracciolo al suo libro “America vs America”, sottotitolo “Perché gli Stati Uniti sono in guerra contro se stessi”, in uscita da Laterza
a psicosi del terrorismo che ha attanagliato l’America e (meno) il resto del mondo dopo l’11 settembre si innesta nell’incertezza derivante dalla latenza di coordinate entro cui tracciare inediti macrofenomeni geopolitici. Viviamo un «treno di paure» determinato, più che da singoli spaventosi eventi, dalla difficoltà  di raccontarceli, di dominarli nel discorso pubblico. Pensiamo di salvarci con gli slogan. Con le «terribili semplificazioni» contro cui ci mise in guardia Jacob Burckhardt. Dove descrizione e prescrizione si confondono. Fino ad allestire un teatro della paura autonomo e inverificabile. Non troppo lontano da quella produzione di realtà  fittizie in cui Hannah Arendt leggeva uno dei fondamenti del totalitarismo. Solo che a generarlo, stavolta, è la massima democrazia al mondo. A segnalarci che, almeno nel caso americano, declino e crisi della cultura democratica procedono in coppia.
L’apogeo di quel Truman Show geopolitico lo toccammo con Bush figlio (ma Obama resta in corsa per superarlo). Per autolegittimare la guerra al terrorismo, strutturalmente infinita, nel 2004 un suo influente consigliere spiegava così a un giornalista del New York Times la logica della Casa Bianca: «La gente come lei vive in quella che noi chiamiamo la comunità  basata sulla realtà », dove ci si illude «che le soluzioni emergano dal giudizioso studio di una realtà  comprensibile. Oggi il mondo non funziona più cosi. Adesso noi siamo un impero. E mentre agiamo, creiamo la nostra realtà . E mentre voi giudiziosamente studiate quella realtà , noi agiamo di nuovo, producendo nuove realtà , che voi potrete studiare (…). Noi siamo gli attori della storia. E a voi, a tutti voi, resta di studiarla». La Grande Paura dell’11 settembre come occasione per creare il Mondo Nuovo, senza perder tempo a capire questo vecchio inutile pianeta.
Un vero e proprio teatro strategico, fondato sulla manipolazione delle angosce collettive e non sul principio di realtà . Da declinare, poi, in una varietà  di teatri regionali e locali, sempre organizzati intorno a «terribili semplificazioni» analiticamente inservibili ma utilissime a chi decide – o si illude di farlo – e non desidera che le ragioni delle sue scelte siano oggetto di pubblico scrutinio. Tale scenografia retroagisce sulle dinamiche storiche da cui vorrebbe immunizzarci, contribuendo a fissare l’immagine comunque nebulosa del Nemico di turno – «il terrorismo» – e a mobilitare le energie per combatterlo. Ne deriva una vulgata mediatica marcata dall’enfasi. (…) Qui proviamo a decostruire i teatri della paura. Rifuggiamo quindi dalla tentazione di classificare l’11 settembre come innesco di una nuova epoca. (…) Cerchiamo di capire perché abbia provocato gli incendi nei quali sono bruciate alcune fra le certezze più care all’America e all’Occidente ancora inebriato dal trionfo sull’Unione Sovietica. Senza pretendere di abbozzare scenari futuribili che la cronaca s’incaricherebbe di demolire.
Alla fine, scopriremo che l’11 settembre è stato meno rilevante di quanto all’epoca credessimo e di quanto molti tuttora inclinano a ritenere. Soprattutto, molto meno imprevedibile. Non un’assurda curvatura della storia, un lampo diabolico nel cielo a stelle e strisce. Semmai, una fase nuova nella parabola geopolitica aperta nel biennio 1989-91 dal crollo dell’impero sovietico e della stessa Urss. L’apertura della breccia nel Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, e l’ammainabandiera sul pennone più alto del Cremlino, il 26 dicembre 1991 – con in mezzo la riunificazione della Germania, il 3 ottobre 1990 – sono eventi di superiore portata pratica e simbolica, assai più decisivi dell’attacco alle Torri Gemelle. Solo su quello sfondo possiamo intendere il senso profondo dell’11 settembre e della war on terror che ne è scaturita. I teatri della paura sono figli della nostra presunzione. Della sindrome da «gioco, partita, incontro» con cui l’Occidente brindò vent’anni fa alla vittoria che pensava finale, mentre ne segnava la fine. Se avessimo meglio afferrato il lascito geopolitico dell’Ottantanove, Osama bin Laden non ci avrebbe colti di sorpresa. Ci avrebbe fatto meno paura.

 


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