Conversazione in Sicilia

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Tudia (Palermo). Che cos’è la repubblica? «Non ci sono mai stato». Qual è la capitale d’Italia? «Non lo so». Ha mai visto il mare? «No». Ha mai mangiato pesce? «Qualche sarda». È mai stato al cinema? «Marcellino. In piazza. Quando ci fu l’Annunziata». Così ci ha risposto Damiano Gentile, contadino di Tudia, in Sicilia.
E così, più di cinquant’anni fa, cominciava una grande inchiesta dell’Espresso sugli schiavi di un antico feudo al centro dell’isola. Tiranneggiati da baroni e marchesi, sovrastanti e campieri, i contadini di Tudia nella metà  del secolo scorso erano prigionieri in un mondo fuori dal mondo. I giornalisti dell’Espresso s’inoltrarono nel cuore della Sicilia per ripercorrere, a ottantaquattro anni di distanza, lo stesso itinerario che avevano seguito appena dopo l’Unità  d’Italia Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, due intellettuali della Destra storica autori di una memorabile indagine sulle miserabili condizioni sociali e politiche del Mezzogiorno.
Che cosa è cambiato a Tudia? Che cosa è cambiato in Sicilia? Grandi inviati come Eugenio Scalfari e Nicola Caracciolo, Gianni Corbi e Livio Zanetti, si posero queste domande incontrando i figli e i nipoti dei mezzadri interrogati otto decenni prima. Non era cambiato niente. Una tragica immobilità  avvolgeva ancora il feudo. Gli schiavi erano ancora lì, rinchiusi nei loro tuguri che dividevano con muli e maiali. L’Africa in casa, titolò L’Espresso del 26 aprile 1959. La testimonianza di Damiano Gentile, contadino analfabeta di Tudia, raccoglieva ancora tutte le sofferenze di quei siciliani del 1876.
Noi siamo andati a raccontare Tudia oggi. Un ritorno. Un altro ritorno. Il fiume è quasi in secca. In questa parte della Sicilia a cavallo tra le province di Palermo e Caltanissetta prende il nome di Imera, ma poco più in là  – dove attraversa le miniere di zolfo abbandonate – lo chiamano Salso. Una discesa ripida che si butta verso il borgo di Recattivo, una salita fino a Portella del Vento, un’altra discesa sul torrente Coda di Volpe e in lontananza ecco – otto chilometri dopo il paese di Resuttano – il feudo di Tudia.
La croce della chiesa sconsacrata è coperta di erbacce, la caserma dei carabinieri deserta, vuoti i silos per le sementi, le rimesse dei mezzi agricoli e in fondo il baglio in pietra, la maestosa masseria con la corte interna dove i padroni – nobili che venivano da Palermo – trascorrevano le loro estati. Tudia è nome arabo che vuol dire gelso. E due sono i gelsi che fanno ombra dietro il baglio, mescolati a palme e pini d’Aleppo, carrubi, peri, peschi.
Quando Scalfari e gli altri scesero qui cinquantadue anni fa per descrivere «l’Italia che non cambia», tutt’intorno era un’immensa distesa gialla, due milioni e mezzo di metri quadrati senza confini, spighe dorate fino all’orizzonte e in mezzo loro, puntini neri, i contadini che si spaccavano la schiena dall’alba al tramonto per i padroni. Oggi ci sono settanta ettari di vigne, trentadue ettari di ulivi, otto ettari di frutteti, cinque ettari di pistacchi, orti, canali, laghetti. C’erano anche duecento schiavi che non ci sono più. I loro figli e i loro nipoti sono fuggiti per fame in Germania, in Belgio, nelle acciaierie di Solingen, nei giacimenti di carbone di Charleroi, nelle fabbriche di Milano e Torino. Solo alcuni di loro, dopo tanti anni, sono ancora qui a fare i contadini. Ci sono però sempre i padroni. I sopravvissuti e i discendenti di blasonate famiglie che dal Seicento, generazione dopo generazione, hanno ereditato terre e anche le vite degli uomini. I Moncada e i Filingeri, i De Spuches, i Tasca, i Cutò. Fino ai marchesi Di Salvo. Gli ultimi signori di Tudia. Com’è cambiato il feudo un secolo e trenta anni dopo l’indagine di Franchetti e Sonnino? Cosa è rimasto del feudo dopo i reportage di Scalfari e degli altri giornalisti dell’Espresso?
Le foto di famiglia, impolverate, sono sistemate alle pareti del suo studio. Muri spessi e soffitti altissimi, fuori il bollore della prima estate siciliana e dentro un fresco ristoratore: sembra una stanza dello scirocco, uno di quegli ambienti progettati dagli antichi mastri per trovare riparo dalla calura più violenta. In realtà , una volta, questo studio era il magazzino per far maturare le olive. Dietro la scrivania c’è l’albero genealogico dei Li Destri della Castiglia, il ramo di madre di Giuseppina Di Salvo, quella che in intimità  chiamano «la signora Giuseppina» ma che per i contadini di Tudia è sempre stata «la marchesa». Ha ottantasette anni e due occhi color smeraldo, si sorregge su un bastone. Ogni tanto fruga nella sua memoria, ogni tanto seppellisce i ricordi più crudeli.
È lei, «la marchesa», la donna che ha segnato il passaggio di Tudia da accampamento di schiavi ad azienda agricola. Il feudo l’ha ereditato da suo padre Vittorio che a sua volta l’aveva ereditato dal padre Liborio, diciotto figli generati e dodici arrivati in età  adulta, dissipatori di ricchezze come tutti i nobili del tempo. Don Liborio, che era entrato in possesso di Tudia nei primi del Novecento quando un rampollo dei Cutò – con una grande passione per le ballerine parigine e molto bisognoso di denaro – glielo cedette in una notte. Da don Liborio a don Vittorio, il feudo e il grano, i padroni e i sotto, il baglio e il pagliaro, il frustino dei campieri e l’ingordigia dei preti, la sbirraglia sempre schierata contro i contadini, pane e cicoria, pane e cipolla. E poi nel 1965 è arrivata lei, Giuseppina Di Salvo marchesa De Gregorio.
Ma la storia di Tudia non si può raccontare solo dalla parte dei padroni. La storia di Tudia la devono raccontare soprattutto i superstiti. Quelli che sono rimasti vivi dopo quarant’anni a scavare nella terra sotto Portella del Vento. Quelli che non avevano niente perché i loro padroni avevano tutto. Uno che nei campi di Tudia ha lavorato per trentadue anni – dal 1936 al 1968 – è Antonino D’Anna. Poi è emigrato in Germania, a Oberkichen. Ma il suo cuore e il suo sangue sono rimasti sempre lì, nel feudo che l’ha sfamato: «Nel bene e nel male qui ho passato la mia esistenza». La vita grama prima e dopo la guerra, poi il 1948 e la speranza che tutto finalmente cambiasse. L’occupazione delle terre, i contadini che erano tutti comunisti, i carabinieri a cavallo che li caricavano, la ritorsione dei campieri, i sacchi di frumento come pizzo al marchese, i sacchi di frumento come pizzo alla chiesa, i sacchi di frumento come pizzo per il passaggio nella stradella che portava fuori dal feudo. Fave e pasta una volta la settimana, la carne a Pasqua e a Natale, il brodo di gallina solo quando in casa c’era un malato. Faticavano dalle quattro del mattino fino al buio, molti non avevano scarpe, guai ai mezzadri con una bella moglie adocchiata dal padrone, il bastone sempre pronto per chi si lamentava o si ribellava. Violenze e soprusi. In un Medioevo di appena mezzo secolo fa.
La parte più imponente del baglio è una costruzione che al primo piano ha un balcone che affaccia sulla corte. Sotto, scolpite nel marmo, tre lettere: BLM. Barone Lucio Mastrogiovanni. Uno dei vecchi proprietari. È da quel balcone che don Liborio aspettava i contadini, quelli che di notte andavano a prendere le sementi alla masseria per ritrovarsi nei campi con la prima luce. «È in quelle notti che don Liborio ci aspettava per pisciarci in testa», ricorda Giuseppe Puleo, un altro degli schiavi di Tudia, sedici anni passati a tirare la corda dei muli per i marchesi Di Salvo.
La scuola elementare non c’è più e neanche la caserma dei carabinieri a cavallo, la chiesa è coperta dai rovi, i magazzini abbandonati. Non ci sono più nemmeno i duecento schiavi di Tudia. Oggi qui, a otto chilometri da Resuttano, quaranta da Caltanissetta e centoquattro da Palermo, vivono la signora marchesa, il figlio Vincenzo Sudir De Gregorio e la sua compagna Gila Sinibaldi.
Dal 1965 la marchesa ha preso in mano le sorti del feudo travolto da un dissesto finanziario e con le unghie e con i denti ha cercato di salvarlo. Ha portato l’acqua, ha piantato i vigneti, ha voluto i peschi sulla collina, alcuni contadini hanno comprato la terra e fatto società  con l’ex padrona. Per esempio i Meli, che ai confini di Tudia oggi hanno sessanta ettari. Il baglio è diventato un bellissimo agriturismo. Dove fino a qualche decennio fa si ammassava il grano adesso c’è una sala banchetti, una lunga tavola coperta da ricotte fresche e pecorini primo sale, frittatine di zucchine, pomodori secchi, olive, cannoli. E vini bianchi e rossi. E poi essenze di erbe e di fiori, olio di calendula e olio di iperico. In una parte della vecchia cantina c’è l’Osho Center, uno stanzone enorme «dove si può meditare, cantare, danzare, stare a contatto con la natura».
Ma la vera sorpresa nell’antico feudo degli schiavi sono Brian e Nicole ed Emy, ragazzi di vent’anni che vengono dagli Usa e dall’Inghilterra. Sono qui a Tudia da qualche settimana. Potano le viti, raccolgono melanzane, fanno marmellate, sbucciano piselli, preparano torte, puliscono attrezzi, riparano sedie, tagliano erba. Nell’ultimo anno di ragazzi come loro a Tudia ne sono passati più di cento. Canadesi. Cinesi. Polacchi. Li chiamano “Wwoofers”, sono volontari giramondo per le fattorie biologiche dei cinque continenti. In cambio di vitto e alloggio offrono lavoro nei campi e nell’azienda agricola. Fuori da logiche mercantili, i “Wwoofers” sono arrivati anche in questa Sicilia alla ricerca del feudo che non c’è più e forse anche di se stessi.
La signora marchesa lancia uno sguardo sornione a Nicole, la bella ragazzina americana che serve a tavola la caponata. Il figlio Vincenzo intanto racconta il suo sogno: una Tudia che in futuro diventerà  un po’ business e un po’ comune. C’è già  l’orto biotantrico, ogni domenica vendono i loro prodotti nella piazza Marina di Palermo.
I vecchi contadini che ci hanno accompagnato in questo viaggio nel cuore dell’isola sorridono con malinconia. Uno di loro ci dice: «Il figlio della marchesa è diventato più comunista di noi. È proprio vero che il mondo si è capovolto». Così abbiamo lasciato il feudo dove una volta c’erano gli schiavi.


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